Manifestazioni in Giappone contro il nucleare. Tarda la ricostruzione
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di Lexdc
SIENA. Alla profondità di 30 km, al largo delle coste del Giappone settentrionale e alle ore 14:46 locali un terremoto cambiò, l’11 marzo di due anni fa, la storia del mondo. Forse è ancora presto per comprendere la portata di quella scossa, che provocò un maremoto sconvolgente. L’acqua camminò sulla terra del Sol Levante per chilometri distruggendo tutto, e infliggendo danni gravissimi alla centrale nucleare di Fukushima. Ieri, dopo due anni, decine di migliaia di persone hanno manifestato in tutto il Giappone per chiedere l’abbandono immediato dello sfruttamento dell’energia nucleare. Già lo stato nipponico ha limitato se non fermato la produzione di energia elettrica attraverso l’atomo, che valeva il 50% del fabbisogno del paese. Recentemente, il neo primo ministro Shinzo Abe aveva parlato di una ripresa del nucleare civile. Troppo grossi gli interessi economici che si nascondono dietro, fatti di aiuti di Stato senza fine alle società che lavorano nel settore. Ma a Tokyo, i manifestanti si sono diretti diretto verso il Parlamento per consegnare una petizione ai deputati, nella quale si chiede lo smantellamento di tutte le centrali nucleari. In Italia l’ampia eco suscitata dalla notizia uccise nella culla il tentativo del governo di aprire una seconda era nucleare italiana.
Fukushima è una storia fatta di morti dimenticati, di paure per la radioattività che attraverso acque e venti si propagò in giro per il mondo, di sfollati che per generazioni non potranno tornare a vivere in quelle lande, delle accortezze e della disperazione che ogni giorno devono sopportare coloro che vivono appena fuori dall’area proibita, una fascia che comincia da un raggio di 30 km intorno alla centrale e ai suoi reattori. Una storia fatta di disinformazione ai massimi livelli, con lo scopo di non allarmare la popolazione e di minimizzare i danni, alla quale nessuno nel mondo ha creduto e che centinaia di operatori indipendenti ha sbugiardato. E’ venuto fuori che per salvaguardare il conto economico tutte le spese di controllo della sicurezza dell’impianto erano state tagliate, che i piani di sicurezza erano vacui e inutili, e che minimizzare la portata dell’incidente ha ritardato gli interventi che erano necessari. Tanto che perfino i 50 volontari dipendenti della Tepco (che rimasero nella centrale dopo il disastro per cercare di fermare la macchina a rischio della loro vita tra esplosioni e collasso degli impianti) vogliono rimanere nascosti all’opinione pubblica per non essere additati come corresponsabili del disastro.
Ci vorranno quaranta anni, dopo 18 mila morti in tre prefetture, decine di migliaia di sfollati, 50 edifici rasi al suolo, decine di migliaia di capi di bestiame morti o abbattuti, miliardi di euro di danni, per tentare di ipotizzare il ritorno degli uomini nei villaggi della zona proibita. Ma la situazione, come a L’Aquila tanto per fare un triste paragone, rimane impossibile anche nelle aree devastate dallo tsunami ma salve dalle radiazioni della centrale di Daichi. Il simbolo delle difficoltà della ricostruzione è la nave di Kesennuma. Si tratta di una nave trasportata dalle onde sulla terraferma in mezzo a questa città di 64.000 abitanti che due anni fa fu immortalata dalle foto di tutti gli inviati del mondo. Un peschereccio che pesa centinaia di tonnellate che dopo due anni fa ancora bella mostra di sé nel centro della città, dove era stato fotografato. Il sindaco di Kesennuma è tranquillamente fatalista: “Finché rimarrà lì, non avremo alcuna speranza di avviare la ricostruzione”.