Malik spacca i giudizi del pubblico
VENEZIA. Prosegue la kermesse veneziana fra pellicole che entreranno nel “persempre” della storia del cinema ed altre che invece passeranno inosservate o saranno destinate a morire entro breve tempo, e feste all’insegna della sobrietà che quest’anno si è fatta sentire più di ogni altra volta. Fra i Film in Concorso quello che ha spaccato nettamente in due i giudizi del pubblico è stato To the wonder di Terrence Malik, un cineasta che o si odia o si ama senza possibilità di mezze misure. Lo si può osservare con la parte cognitiva ed odiarlo perché in realtà non c’è molto da capire nelle sue pellicole o lo si può osservare attraverso altri canali ed altri codici ed amarlo immensamente epr la sua ricerca di spiritualità della quale oggi in maniera particolare si ha bisogno.
Le parole non sono lo strumento attraverso il quale il regista cerca di entrare nei nostri cuori così come non lo è il ” capire” eppure alla conferenza stampa quasi tutte le domande fatte ai suoi collaboratori cercavano il registro del “Capire”, cosa che confesso ha disturbato il clima di sogno dentro al quale ero entrata dopo la visione della pellicola. Senza fare paragoni blasfemi vorrei ricordare come i film di Fellini non andavano capiti nonostante avessero sempre messaggi importantissimi anche qui c’è un messaggio molto denso di significato che va colto soltanto così come si coglie la “Bellezza”, impossibile da capire ma strumento, come affermò Fjodor Mihajlovi? Dostojevski per cambiare il Mondo. Io sono stata senza alcun dubbio fra la parte di spettatori che ha amato la pellicola,
Girava voce che Terrence Malik, timido e solityario regista, fosse al Lido tanto che tutti aspettavano di vederselo apparire davanti ad una delle
proiezioni in mezzo agli spettatori e addirittura sono stati appesi al muro dei cartelli con Wanted Terrence Malik, ma la cosa sembra esser stata soltanto una leggenda metropolitana.
Accanto a Terrence Malik una pellicola ebraica molto tenera e intelligente: Lemale Et Ha’Chalal di Rama Burshtein. La storia di una ragazza che deve sposare il marito della sorella morta. La trama si snoda tutta su questo tema ma senza mai annoiare o drisultare pesante.E’ stata poi la volta di Pietà, un Film coreano di Kim Ki-duk, impietoso come dice lo stesso regista ma di una bellezza struggente nel mostrarci dove può
arrivare l’amore materno. Uno dei più densi di signbificati della Mostra.
Fra i Film in concorso è stata poi la volta di Linhas de Wellinghton di Valeria Sarmiento, ben fatto delicato come documento storico ma pone poche domande e offre troppe risposte, non spaccherà certo il pubblico in due fazioni o più e quindi sarà destinato a morire ai fini della gara resterà invece e me lo auguro come documento per mostrarci la storia di un popolo.
Paradise del regista austriaco Ulrich Seidi continua a far parlare di sè per immagini considerate blasfeme ma che in realtà sono soltanto un mezzo per mostrarci l’incomunicabilità fra le coppie e l’integralismo religioso di una donna che per sostenere l’idea di un marito ammalato instaura con la fede un rapporto perverso e troppo ravvicinato, tanto da usare un Cristo di legno per masturbarsi. La pellicola sembra aver avuto una funzione catartica dal momento che quando si sono verificate le scene in cui sia la donna sia il marito si ribellavano alla fede il pubblico in sala ha lasciato liberare un fragoroso applauso.
Fra i Film non in Concorso stupende proiezioni alle Giornate degli Autori di cui è Presidente un nostro illustre concittadino: Roberto barzanti.
Fra le pellicole presentate: Blondie, di Jasper Ganslandt, una saga familiare con immagini e dialoghi molto suggestivi. Ieri è stata invece la volta di Acciaio di Stefano Mordini, tratto dal romanzo edito da Bompiani di Silvia Avallone. Un po’ scontato nel finale ma godibile e davedere senz’altro. In attesa di nuove proiezioni da Venezia Lido.