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Al Pendola un ciclo per non dimenticare i Balcani

di Viola Caon
SIENA. Inaugurata oggi al Cinema Nuovo Pendola la rassegna cinematografica dal titolo: “C’era una volta in Jugoslavia: il cinema come testimone”. A 10 anni dall’intervento della NATO nel conflitto balcanico, il Cinema Pendola, in collaborazione con il Centro documentaristico “Gabrio Avanzati,” ha organizzato una serie di proiezioni cinematografici per riportare l’attenzione su un’area tanto complessa e tanto vicina a noi come quella delle ex repubbliche dell’Unione Sovietica. “Dov’è finita la Jugoslavia?” si chiede il capogruppo di Rifondazione Comunista Francesco Andreini, facendo riferimento al purtroppo noto fenomeno di perdita di memoria a breve termine da cui è spesso affetta l’attenzione mediatica nei confronti delle zone di guerra.
A testimonianza di una necessità che va al di là della semplice commemorazione, ma che mira ad approfondire un tema, l’iniziativa si è aperta nel pomeriggio con un dibattito introduttivo a tutto tondo per motivare l’interesse per la Jugoslavia da più punti di vista. A dare il loro contributo alla tavola rotonda ospitata nella sala di proiezione senese sono stati invitati, infatti, diversi personaggi che hanno una conoscenza approfondita del tema, ognuno nel proprio ambito specifico: Tommaso di Francesco, caporedattore esteri de “Il Manifesto”, Mauro Moretti e Achille Mirizio, entrambi docenti dell’Università di Siena, e Miodrag Lekic, ambasciatore della Jugoslavia ai tempi del conflitto.
Già di per sé, la presenza di tante voci diverse basta a dare un’idea della complessità dell’argomento. Jugoslavia, laboratorio per la nascita dei nazionalismi; Jugoslavia, nazione divisa, frammentata e profondamente diversificata che non ha retto il crollo dell’unica forza che era riuscita a tenere insieme la miriade di etnie che la costituiscono, la dittatura di Tito. Questo è il nucleo centrale che emerge dai vari interventi. Che si tratti di un approccio storico, come quello del giornalista Di Francesco e del professor Moretti, o di uno religioso come Mirizio, o addirittura diplomatico come Lekic, il coro si fa unanime quando si giunge a prendere atto delle contraddizioni che caratterizzano la questione balcanica. Discorso valido, peraltro, tanto rispetto ragioni storiche legate al territorio stesso, quanto alla condotta tenuta dagli stati che nel ’99 sono intervenuti per tentare di risolvere il conflitto.
Particolarmente illuminante da questo punto di vista l’interevento mirato e lucido del caporedattore del Manifesto, il quale, ripercorrendo l’excursus storico della vicenda, ha tenuto a restituire una panoramica che mettesse in luce anche quelle che, secondo lui, sono le responsabilità degli stati esteri, dell’Unione Europea in particolare. “Dopo la caduta del muro”, non esita a dire di Francesco, “la condotta della UE nella gestione dell’area è stata a dir poco criminale. Non ho problemi ad affermare che l’attuale Unione Europea ha fondato se stessa sulle macerie della repubblica federale jugoslava.” Parole forti, le cui argomentazioni tuttavia lasciano riflettere. Secondo la tesi di di Francesco, che all’epoca si trovava sul posto per documentare il conflitto, infatti la maggiore colpa dell’Europa  in questa situazione sarebbe stata quella di alimentare i nazionalismi nelle ex repubbliche sovietiche subito dopo il crollo, con l’offerta di una sicura ammissione nella UE agli stati che per primi si fossero dichiarati nazioni indipendenti. “Nelle contraddizioni della Jugoslavia, nazione morta e risorta per ben tre volte, si appalesano molti termini dei conflitti della società moderna.”, conclude il giornalista.
Non ultimo, il problema della convivenza multietnica e, più nello specifico, delle sue venature religiose. È proprio questo che tiene a sottolineare il Mirizio nel suo intervento. Da docente di storia delle religione, infatti, il professore non manca di fornire una serie di dati specifici che contribuiscono a definire il quadro religioso della regione come particolarmente composito. “Musulmani, ortodossi e cattolici: queste tre confessioni religiose hanno dovuto trovare il proprio spazio nello stesso territorio e non c’è bisogno di ricordare quali sono stati i risultati.”, dice facendo riferimento alle pulizie etniche che hanno afflitto le popolazioni dell’area in questione. “Non solo”, aggiunge “ma si deve tenere in considerazione che le singole professioni religiosi trovano in Jugoslavia una gamma di varianti come in nessun altro paese.
Un punto di vista significativo è stato quello proposto infine da Lekic. Al lavoro ai tempi del conflitto, l’ambasciatore jugoslavo ha apportato un contributo di particolare valore grazie alla sua angolazione interna. “Nonostante finora si sia parlato della Jugoslavia come laboratorio, come terra artificiale di esperimenti, io mi sento di dire che una nazionalità jugoslava esiste e che io mi sento jugoslavo.” In un’ottica degna di un buon diplomatico, inoltre, Lekic ci tiene a ridistribuire le responsabilità e a dire che, nonostante l’Europa abbia addossato tutte le colpe della guerra nei Balcani alla Serbia, questa non è l’unica responsabile.
Una storia complessa e particolarmente articolata, quindi, quella che si vuole presentare al Cinema Pendola nel corso delle prossime settimane. Una storia in cui la diversità e tutte le contraddizioni che ne derivano sono protagoniste. È proprio scegliendo “il cinema come testimone”, e quindi favorendo un’ottica quotidiana, interna e civile nel senso più ampio del termine che l’iniziativa tenta di restituire valore alle differenze che, come ha sottolineato lo stesso Di Francesco, “sono il principio della democraticità.”
Dal prossimo lunedì fino al 1° giugno alle ore 21, saranno proiettati quattro film di autori balcanici per contribuire a non far finire l’ennesima tragedia storica in un dimenticatoio che ne è già abbastanza pieno.
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