Abbiamo le mani legate, clandestini con "regolare" lavoro in nero
di giorgio mancini
PONTEDERA – In tanti sanno, in troppi fanno finta di non vedere. La locuzione in latino hic sunt leones (qui ci sono i leoni), stava ad indicare che non si sapeva cosa si trovasse in quelle zone sconosciute, a parte il fatto che fossero abitate da belve, ed era bene starne alla larga. Un po’ come avviene per i quartieri malfamati in tutto il mondo, dove anche la stessa polizia evita di addentrarsi. Ma non è solo la paura di oltrepassare quel “guado” insidioso, molte volte c’è la volontà di far finta di non sapere.
Città, anche come l’industriosa Pontedera, che dell’accoglienza hanno fatto una scelta politica, ma non sempre sapendola poi, gestire bene, scoprono che hanno trasformato quartieri, anche centralissimi, come dicono gli stessi pontederesi, in “ghetti”. Appartamenti dove vivono troppi extracomunitari ammucchiati, magari affittati ufficialmente ad una persona, e poi diventati dormitori per molti, e i controlli, quando ci sono, sono insufficienti. Le forze dell’ordine fanno quello che possono, quando non vengono, addirittura, aggredite. “Abbiamo le mani legate – si sfoga un ufficiale di polizia giudiziaria che, ovviamente, vuol mantenere l’anonimato. La burocrazia e certa politica, di fatto, ci ha ammanettato. Se fermiamo un clandestino, per esempio, lo dobbiamo portare in camera di sicurezza, così bisogna anche sorvegliarlo tutta la notte. La mattina dopo, con rito direttissimo, andiamo davanti al giudice. Se gli viene dato il foglio di via, non ci sono centri dove poterlo portare prima del rimpatrio. Così il clandestino, che dovrebbe lasciare l’Italia, in realtà ritorna libero-clandestino, tutto ritorna come prima, il problema della clandestinità continua ad esistere e, qualcuno, ci si arricchisce pure”.
Parte da queste parole il viaggio per saperne di più. Un percorso non semplice e insidioso. La prima domanda sarebbe facile, ma le risposte che arrivano lasciano sconcertati. Come fa a vivere un clandestino a Pontedera, in una nazione straniera, senza alcuna assistenza, senza soldi e senza lavoro? Se si esclude l’entrare a far parte della malavita, ecco la prima risposta: esistono aziende che danno il lavoro in nero. Sono nate società cooperative di servizi che, oltre ai soci lavoratori, sempre quasi tutti extracomunitari, danno lavoro anche ai clandestini. Ovviamente la maggioranza di queste ditte non si presta a queste illegalità, ma alcune sì.
A raccontare i meccanismi truffaldini più abusati, è il presidente di una di queste cooperative, con sede nella provincia fiorentina, ma che opera anche nel pisano. E, ancora una volta, ci troviamo di fronte alla richiesta di mantenere l’anonimato. Il presidente non nasconde che imperano sistemi concorrenziali che lui stesso definisce “mafiosi”, e non vuole storie. “Uno dei modi più semplici – continua il presidente (lo chiameremo così) – è quello di far lavorare il clandestino, pagandolo una sciocchezza e senza alcuna assicurazione o tutela. Se ci fosse un controllo sul posto di lavoro, caso rarissimo e, in percentuale improbabile, viene detto che quella persona si era presentata la stessa mattina accompagnato da un amico, e che avrebbe portato i documenti per cercare di essere regolarmente assunto. Una scusa improbabile, ma ci si appella al buonismo politico di dare aiuto a un extracomunitario. Ma esistono anche altri sistemi, ben studiati. Tutti sanno, del resto, che il caporalato esiste, e come. “Quelli”, passano la mattina – continua il presidente – fanno montare in auto o sul furgoncino quanti ne servono, di questi nuovi schiavi, e via a lavorare. Ovviamente, chi dirige la cooperativa fa finta di non sapere niente. La responsabilità, se succedesse qualcosa, ricadrebbe su un altro extracomunitario, proprietario della vecchia auto, a lui intestata, che ha fatto da “bus navetta”, e che ha portato l’amico irregolare sul posto di lavoro. Il gioco del rimpallo”.
Ma, sempre a Pontedera, riusciamo a parlare con un giovane marocchino. Ci dice il nome, ha ventiquattro anni. Lo chiameremo Alì (il nome è di fantasia). Per parlare ci chiede dei soldi, gli servono per pagare il suo avvocato (una donna) con studio in Pontedera. “Sono clandestino perché mi è stato rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno da più di un anno, ma l’avvocato mi ha detto che ha fatto ricorso e lo vincerò. Avevo un lavoro a tempo indeterminato nel settore della raccolta differenziata, ero carrellista, guidavo i muletti, ora sono stato licenziato, ma il mio “principale” mi dà ugualmente da lavorare. Mi paga molto meno, a lui conviene e io ho bisogno di soldi. Vado a fare le pulizie e altri lavori con altri marocchini, uomini e donne, qualcuna di queste… – aggiunge Alì, con un sorrisetto insinuante – no, questo non lo scrivere. Avevo anche la fidanzata, se ne è andata quando ho perso il lavoro. Con gli straordinari arrivavo anche a più di millenovecento euro al mese. La mattina, ora, il “principale” ci fa venire a prendere vicino alla stazione – continua il giovane marocchino, che parla bene l’italiano – poi ci accompagnano dove bisogna lavorare e ci lasciano lì vicino. Dopo, magari, torniamo a Pontedera anche col pullman o col treno”. Alla domanda perché gli è stato rifiutato il permesso di soggiorno, Alì tergiversa un bel po’, infine lo dice: “Sono stato tre mesi in prigione, mi hanno “fregato”, lo dimostrerò. Ho una condanna di quattro anni per spaccio di droga, ma io non c’entro nulla”. Chiedendogli dove abita risponde: “in centro, ora sono anche moroso da mesi, e la proprietaria mi ha dato lo sfratto, ma io non me ne vado. L’avvocato mi ha detto di non rispondere al citofono e al telefono, se non conosco il numero che mi chiama. Mi ha detto anche di non aprire al postino e non firmare nulla. Sono un irregolare, ma l’avvocato mi ha assicurato che non mi possono rimpatriare, e che nessuno verrà a cercarmi”.
Alì, quando aveva i documenti in regola, ha scelto la delinquenza.
Ora è un clandestino, condannato, ma con “regolare” lavoro in nero.
Il processo è stato pubblico e, le forze dell’ordine, sono a poche decine di metri dalla casa dove abita.
Da dove viene tutta questa sicurezza di Alì e della sua avvocatessa, forse: hic sunt leones?
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(Nella foto: la centralissima via Palestro, dove, come per altri quartieri, è sempre più difficile leggere, sui campanelli, un nome italiano)