di Silvana Biasutti
MONTALCINO. Naviga e naviga, incrocio ogni giorno i capitoli dell’operazione “no_alcol”, che per ora appare solo in lingua inglese; ma del resto l’inglese è la lingua perfettamente in target, come si diceva ai miei tempi.
A confermarmi che non sono la sola a fare questi incontri quotidiani, interviene un’altra signora, assai più giovane, che naviga soprattutto per ragioni professionali.
So di sapere, in questo caso, perché ho ancora buone antenne e perché non ho dimenticato i fondamentali: sarà impossibile affermare (leggi anche ‘rilanciare’) un prodotto o un’idea, se sul mercato (leggi anche ‘nella rappresentazione globale’) non vi sono le condizioni per la sua accettazione.
È un film già visto più volte; ricordo per esempio quando Timberland sbarcò in Italia, sconvolgendo il “Paese che faceva le più belle scarpe del mondo” e riuscì a convincere tutti – a cascata e in un battibaleno – che quelle scarpe con forti connotati tecnici (e antiestetici, per il gusto nostrano di allora) erano la chiave per il nuovo paradiso.
Ma quale paradiso? Quello abbandonato da pochi decenni dai nonni e dai padri di chi le avrebbe acquistate e indossate: la campagna, la terra, quel luogo schifato da chi vi era vissuto in condizioni di scomodità ed emarginazione rispetto a “quelli di città”.
Ricordo ancora di aver ascoltato questa frase, negli anni ’70: vogliamo anche noi strade larghe, riscaldamento e ascensori, come in città. Chi me l’ha detto è ancora vivo e forse non se ne ricorda, perché ora si gode la sua bella campagna e ha visibilmente capito che quello è il paradiso in terra: la terra.
Il vino – l’accezione italiana dell’alcol – non era, in quegli anni, un consumo di moda. Ricordo a Milano che “noi ribelli” avanguardie ignare (ed eterodirette?) andavamo a bere vino alla Magolfa, al Praticello e in un paio di altri locali maledetti dove il vino era una brodaglia densa e scura e di provenienza genericamente “contadina”.
Insieme al vino c’era sempre qualcuno alla chitarra che recuperava canzoni ‘da osteria’ mixate con canti partigiani, e la poetica evocata non era ancora istericamente natural-ecologica: certe parole ancora non circolavano né si conoscevano -.
Tuttavia è ovvio ricordare che il mercato del vino, così come lo conosciamo adesso mette le sue radici in quella nostalgia di luoghi abbandonati per mancanza di prospettive, di proposte di vita compatibili con quello che stava nascendo in città.
La città era Milano, dove stava nascendo il made in Italy, in un triangolo (successivamente definito “della moda”); arte, design, giornalismo, fotografia, un nuovo punto vendita – la Rinascente -, che apriva gli occhi sul mondo, creando nuovi desideri, ma anche attizzando il cuore e la mente di chi usciva dall’autarchia e stimolando le intelligenze.
Fermenti e nuove fermentazioni, nuovi gusti e sapori, con un’attitudine al lavoro manuale guidato dall’abitudine alla bellezza (la torre di Pisa made in Taiwan era di là da venire).
Ricordo Carlo Giulio Argan che in una riunione, durante un programma di formazione, ci diceva che non c’era soluzione di continuità tra i paesaggi e le forme presenti già nelle opere d’arte, e il gusto, il modo di pensare la vita, e la creatività di chi nasceva e viveva nel Bel Paese, perché la bellezza diffusa influenzava l’operatività…
Questo era il clima del tempo, poi un po’ eroso e normalizzato da molti fattori; ma è stato un imprinting fortissimo che ha stimolato positivamente molti settori, non ultimo vino, cibo, paesaggio, tempo libero, ruralità genuina e l’idea di paesaggio agricolo come luogo di equilibrio vitale.
Perché mi è venuto da appuntare un po’ alla buona questo percorso di vita vissuta?
No, non sono afflitta da ‘magone’, non ho nostalgie. Penso però alla destrutturazione programmata di cui ho colto solo alcuni episodi e penso anche altro; non è mai troppo presto per iniziare a pensare.