L'Archivio di Stato ricorda il 5 ° centenario della morte dello studioso
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Le lotte di fazione aprivano spazi alle mire degli altri potentati della Penisola, a cominciare da Firenze, l’eterna rivale, protesa a completare il processo d’espansione che la vede padrona di quasi tutta la Toscana centrosettentrionale fin dai primi del ‘400, quando sono indipendenti ormai solo Siena e Lucca, entrambe situate sulla nevralgica Via Francigena. Nel 1429 Firenze aggredisce Lucca, mettendo in crisi anche Siena. L’eroe della difesa di Lucca è il condottiero Antonio di Checco Rosso Petrucci, che infligge ai fiorentini una serie di umilianti sconfitte. Al fianco di Antonio in tutte le sue spericolate avventure è sempre un altro patrizio senese, il ricchissimo Ghino Bellanti, che è il nonno materno di Pandolfo. In seguito alla guerra, Antonio e Ghino per vent’anni esercitano un potere eccezionale, infrangendo spesso le regole degli ordinamenti repubblicani. Il Magnifico Pandolfo era dunque erede di una tradizione familiare molto impegnativa.
La guerra di Lucca conferma la spartizione della Toscana com’è rimasta per secoli, la Toscana fiorentina, quella senese e quella lucchese, e nel 1433 costringe Cosimo de’ Medici a un anno d’esilio. E vent’anni dopo Cosimo si vendica, alleandosi a Francesco Sforza, che nel 1450 riesce a diventare signore di Milano. Anche Sforza aveva ottimi motivi per avversare Antonio Petrucci. Il condottiero si sente minacciato e nel 1456 tenta un colpo di stato. Il complotto è scoperto, Antonio è condannato a morte in contumacia e contro la sua parte si scatena una repressione di violenza mai vista nella pur turbolenta vita pubblica senese: sentenze capitali, bandi all’esilio, confische di beni, multe pecuniarie, con il territorio presidiato dalle milizie straniere, in un clima di strisciante guerra civile. Sono penalizzate molte famiglie insigni e addirittura la cerchia di Enea Silvio Piccolomini, il papa umanista Pio II. Si insedia così un governo subordinato alle direttive di Firenze e Milano al punto di lasciar perdere perfino l’occasione di ampliare i confini territoriali. Molta parte della consorteria Petrucci è costretta all’esilio. “Siamo la famiglia più abbandonata di Siena, abbiamo venduto perfino i letti”, scrive il padre di Pandolfo, Bartolomeo, che rientra a Siena solo nel 1480. Il ritorno scatena altre lotte civili e due anni dopo con i figli, Pandolfo compreso, Bartolomeo deve di nuovo lasciare la patria. Quando nel 1487 il futuro principe torna, provato da tanti anni di esilio, è temprato a far tacere ogni sentimento che non sia di rivincita. Assume il pieno controllo del settore militare e riesce a mantenere Siena indipendente in anni quanto mai tempestosi. Incrementa in misura considerevole le sue ricchezze. Blandisce l’opinione pubblica con feste spettacolari. Prosegue il culto della classicità promosso dalla generazione precedente e recupera il palazzo gentilizio, che diventa una piccola reggia dove in una profusione di azzurro e oro, i colori del casato, gli affreschi raccontano sotto la finzione mitologica le vicissitudini attraversate: Troia in fiamme, Cassandra in lacrime ed Enea che fugge con il padre sulle spalle. Fra molto altro, Pandolfo incoraggia gli studi e si avvale di un tecnico di genio, Vannoccio Biringucci, che fa lavorare nelle miniere di sua proprietà. Biringucci ha notorietà europea, ma non minore è la fama di Francesco di Giorgio, che segna tanta parte d’Italia con architetture di chiaro accento senese. Tra queste, l’Osservanza di Urbino, il mausoleo dei Montefeltro. È molto simile all’Osservanza senese dove, circondato dalla mobilia elegante di Antonio Barili, un virtuoso dell’intaglio, ha voluto essere sepolto il Magnifico Pandolfo. Personalità problematica ed espressione di canoni propri a un ceto e un’epoca ormai tanto lontani, durante il suo effimero principato, che i figli non riusciranno a conservare, Siena è all’altezza delle sue tradizioni migliori, degna di essere annoverata fra le molte grandi e piccole capitali del Rinascimento italiano.