"Shalom" ad un uomo di Hamas, calci e pugni per Karem Mbadda
di Raffaella Zelia Ruscitto
SIENA. Nella marea di notizie e di immagini che arrivano dal Medio Oriente, in Italia, tutta l’informazione, segue un flusso unico. In barba alla deontologia, alla professionalità, all’equidistanza… e pure alla propria coscienza, i mass media italiani agiscono guidati da un pensiero unico così potente e compatto che neppure nell’attuale regime di estrema destra israeliano riescono ad attuarlo. Sì, perchè alcune testate locali accennano una qualche forma di critica al Primo Ministro e al suo Governo… in Italia no.
In Italia non c’è spazio per la sofferenza del popolo palestinese; per i bambini uccisi dalle bombe, per i padri e le madri senza più nessuno che possa pronunciare quel nome; per i piccoli nelle incubatrici che non vedranno mai la luce; per gli uomini e le donne affamati, assetati, travolti dall’orrore di una violenza cieca che ha raso al suolo, case, ospedali, chiese, e, addirittura campi profughi.
Parlare del dolore del popolo palestinese, secondo la nuova morale impostaci, vuol dire matematicamente stare dalla parte dei terroristi di Hamas ed essere antisemita.
Cercare di spiegare, come ha fatto il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che i dolorosi ed esecrabili accadimenti del 7 ottobre, sono il risultato di una politica spietata e criminale, messa in atto da Istraele, da oltre 60 anni ai danni dei palestinesi, è intollerabile per gli israeliani. Il loro ambasciatore negli Usa Gilad Erdad, si è così infuriato con il rappresentate supremo dell’ONU che ne ha chiesto le dimissioni. Secondo Erdad la “compassione” non deve essere espressa nei confronti delle sofferenze subite dai palestinesi ma deve essere direzionata solo verso gli israeliani. Nessuna compassione per la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Nessuna compassione per gli oltre 700 morti palestinesi in meno di 24 ore. Nessuna compassione per gli oltre 2300 bambini morti in questi quasi 20 giorni di guerra. Dobbiamo dimenticare che ancora oggi ci sono terre espropriate ai palestinesi e assegnate ai coloni, per amore o per forza (più per forza). Dobbiamo dimenticare che scuole palestinesi vengono rase al suolo dagli israeliani e che uccidere un palestinese, da parte di un colono, non è neppure definito, da molti, un reato bensì un gesto eroico!
Nessuna pietà in nome di una missione – sradicare Hamas – che non sarà mai raggiunta. Mai. Neppure se viene rasa al suolo Gaza. Neppure sul sangue di milioni di innocenti. Mai viene costruito qualcosa di buono se le fondamenta sono violenza, odio, vendetta, arroganza del potere.
I torti subiti dai palestinesi, negli ultimi 75 anni non saranno cancellati. Neppure dall’ultimo attacco di Hamas. Anzi. Chi davvero ama Israele non può non temere per il futuro del suo stesso popolo. Quanto odio scaturisce da ogni bomba che colpisce un palazzo a Gaza? Quanta disperazione può esplodere nel petto di un palestinese dilaniato dal dolore di uno o più lutti dolorosi quanto ingiusti? Dove può mai portare questo genocidio sistematico, giunto a questo estremo, così palese a tutti meno che ai potenti di mezzo mondo ed alla stampa a questi asservita?
Mentre io sono qui che scrivo dalla mia comoda poltrona, c’è chi muore, c’è chi piange, c’è chi soffre, Israele non smette di bombardare, anzi. Adesso neppure i funzionari delle Nazioni Unite sono ammessi sul territorio per assistere alle atrocità in atto. Si bombarda sui mercati dove la gente cerca qualcosa da mangiare e trova la morte. Ci sono palestinesi che bevono da pozzanghere perché non c’è acqua potabile, altri che scavano tra le macerie per liberare corpi senza vita, altri che sotterrano cadaveri in fosse comuni, altri ancora che stringono mani di figli morenti per i quali non ci sono cure, non ci sono medicine, nessuna speranza di soccorso.
Anche il popolo israeliano, quello che non decide, subisce e soffre: ci sono madri affrante con figli richiamati alle armi, famiglie che aspettano notizie dei loro cari presi in ostaggio da Hamas, uomini e donne che vivono con dolore questo conflitto, perché hanno sempre fatto la scelta di convivere pacificamente con i fratelli palestinesi.
Non metterò a paragone le sofferenze dei due popoli: non voglio. Ognuno sa, in cuor suo, che il dolore che si solleva da quella martoriata terra è indicibile e la mente, dopo un po’, si rifiuta di indagare oltre per un terrore che sale dal profondo.
Ma bisogna dire. Bisogna raccontare. Per suscitare l’orrore della guerra. Per chiedere, con consapevolezza, la fine di questo massacro. Bisogna dare voce ai palestinesi. Lo fa Selvaggia Lucarelli dal suo profilo Instagram.
Lo fa Karem _from_haifa che, di ritorno dalla Palestina, dopo essere atterrato all’aeroporto, in Italia, a Roma, è stato prima inseguito in auto e poi aggredito violentemente a calci sulla schiena e in faccia, da loschi figuri. Notte in ospedale e denuncia conseguente. Un’azione intimidatoria talmente esecrabile da non poter essere neppure commentata.
Lo fanno anche tanti ebrei, come il professor Gabor Maté, che in poco meno di venti minuti, in una intervista, spiega la sua posizione e racconta, per invitare chi ha sete e fame di giustizia e di verità a non censurarsi solo per paura di essere giudicati antisemiti, quando non è così. Lo facciamo, nel nostro piccolo, anche noi perché la libertà di informare viene prima di tutto. Perché siamo in uno Stato di diritto e quello che viene raccontato altrove nel mondo, persino in Israele, deve arrivare anche qui.
E questo nostro racconto di oggi non può finire in altro modo che sottolineando il gesto più significativo di ieri. Le immagini del rilascio di due anziane donne israeliane, ostaggi di Hamas. Una delle due donne, appoggiata ad una rappresentante della Croce Rossa, prima di appoggiarsi al soldato israeliano che la stava prendendo in consegna, fa un passo indietro, si gira verso il giovane di Hamas, dal volto coperto, cerca la sua mano. Lui gliela stringe. Si guardano e lei, nitidamente, dice “Shalom”. In quella che sembra – e che qualcuno vuole fortemente che sia sempre di più – una distanza incolmabile tra due popoli, una piccola donna e un uomo vestito di nero, improvvisamente, hanno sgretolato ogni muro e la loro immagine è più forte dello sterile chiacchiericcio dei tanti impreparati – quando non in malafede – che ascoltiamo commentare nelle trasmissioni televisive e radiofoniche di questi giorni.
Inviterei tutti a riguardare quella scena in loop ed arrivare a sentire quella stretta di mano, lo sguardo tra i due, come fossimo noi i protagonisti. Come dipendesse da noi quella speranza di pace a cui dare un motivo per non morire. Un primo passo per risalire la china dalla disperazione e dall’odio. Forse – e sottolineo forse – non è troppo tardi.