Ma anche il dovere di non dimenticarle...
SIENA. Abbiamo, nativo, un diritto alle parole. Se è vero che sono “pietre”, le parole non servono solo per essere lanciate. Possono ancora e sempre essere usate come materiale da costruzione. Possiamo e dobbiamo costruire, anche se è faticoso e non si risolve in semplice esercizio verbale, il chiacchierare. Il sociologo De Rita ha affermato che molte parole sono morte e che presto non ci saranno più quelli che sapevano usarle. Ciò rende attuale la risposta che un ventennio fa diede ad un’intervista Sergei S. Averintsev (grande studioso sovietico dell’antichità e del Medioevo): ”È sempre spiacevole perdere qualcosa. L’umanità può sopravvivere senza questo o quel codice d’onore, ma non senza il concetto stesso di onore. Mi dispiace molto che le lingue classiche, il greco e il latino, stiano scomparendo dalla vita europea. Un numero sempre più limitato di persone sarà capace di leggere Aristotele nella versione originale, ma non è solo questo il punto. La cosa più importante è la possibilità che sopravviva il pensiero di Aristotele” ( in “Un miliardo di analfabeti – la sfida”, il Corriere dell’Unesco, 1990).
Gli fanno eco, di recente, le ansie espresse dall ‘ Accademia della Crusca. E la storica Ester De Fort, più recentemente intervistata (cfr. Famiglia Cristiana – 11.09.2011), parlando di analfabetismo funzionale, ha richiamato l’esito della ricerca All, secondo cui “la situazione italiana è grave: solo il 20% degli italiani sarebbe fornito degli strumenti culturali sufficienti per orientarsi nella società contemporanea. La situazione è aggravata dal fatto che le capacità limitate sono presenti anche tra i giovani”. Ma non solo. L’Italiano non è la lingua ufficiale dell ‘Italia: “L’italiano non è la lingua ufficiale dello Stato italiano, o meglio, lo era ma ha cessato di esserlo con la caduta del fascismo… Non fu nominata neppure per inciso nella nuova Costituzione, come se fosse non la lingua d’Italia, ma una lingua “in” Italia…
Così oggi ci troviamo davanti una situazione non dissimile da quella che spinse Dante a scrivere nel Convivio un capitolo “a perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’ Italia che commendano lo volgare altrui e lo proprio dispregiano”. I nuovi analfabeti, che già individuava il poeta spagnolo Pedro Salinas, sanno sì leggere, ma mancano della “capacità di leggere bene, in modo tale che la parola diventi spirito e la pagina prenda vita” (in Revista de America, Bogotà, 1945). Ritengo che dobbiamo restituire il diritto alle parole. Cominciai, studente liceale, a gustare la bellezza di lavorare con le parole: piccoli giornali, cineforum, confronti talora chiassosi sulle attualità. Le parole fioriscono secondo una loro architettura, che è, forse, anche l’ architettura del mondo: Adamo dà nome alle piante e agli animali, per essere uomo fuori dal rischio dell’anomia; Babele sulla confusione delle parole gioca il proprio desiderio di umana autonomia; la Parola, crocifissa, salva uomo e mondo, in Giovanni. C’è la possibilità, insomma, di non subire, ricevendole soltanto, le parole. Si cresce umanamente di parole, con le parole. O non si cresce. Le parole sono focolare: persona, famiglia, scuola e società debbono incontrarvisi e condividere grammatica e sintassi. Le parole hanno una geografia ed una storia. La geografia è quella delle piste immense che hanno rigato la terra, le lande “silenziose” e deserte per cui l’uomo è giunto fino a noi. La storia è storia di parole, di affronti, di conciliazioni, di promesse, di rendiconti di parole. Le parole sono “gioco”. Il più bello dei giochi. Le parole sono immagini, musica, drammatizzazione di interiorità insospettate.
Molti mondi condividono un solo giorno, un solo attimo nelle parole. Ci guardano occhi, che si accendono su culture diverse, con le loro parole. Interculturalità della parola. Il diritto alla cittadinanza reclama identità personale. Il presupposto per sostenere il confronto con le parole degli altri, con le loro culture. Perché, se, poi, veramente fossero anche soltanto “pietre”, una volta lanciate nel tessuto di questa società “liquida”, le parole produrrebbero comunque loro cerchi, con spinte dell’uno sull’altro. Risonanze, forse. E non è di questo che si nutre la nostra umanità? Ha scritto Vincenzo Gioberti : “L’uomo è un dio che incomincia…”.