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di Giulia Tacchetti
SIENA. Questo non è un testo poetico, non è un testo romantico, né denuncia particolari temi sociali. Se ci limitassimo ad una sola lettura del testo di Harold Pinter, forse non ci troveremmo nulla di speciale. Per questo una parte del pubblico presente in sala (la recensione si riferisce al 26 febbraio) si è via via stancato e non è riuscito ad apprezzarlo, mentre un’altra parte, dagli applausi e chiamata in scena degli attori, ha mostrato un alto indice di gradimento .
L’opera è stata rappresentata per la prima volta nel 1958 all’Arts Theatre di Cambridge. Siamo negli anni difficili del dopoguerra (anche se ci stiamo avviando verso la rinascita economica), della censura, ma anche della repressione in molti paesi del mondo. Pinter, per essere capito, ha bisogno di una regia che riesca gradualmente ad aprire le stanze nascoste del testo. Proprio attraverso l’abilità di Peter Stein nasce un’ alchimia tra attori e regista, che lega quel mondo di settanta anni fa agli incubi della nostra epoca: la pandemia, la guerra, la minaccia delle armi nucleari, la crisi energetica, i cambiamenti climatici, l’odio che permea i rapporti umani. Ecco che entriamo nel tema kafkiano dell’assurdo-minaccia, dell’incubo, ritornati all’improvviso a spaventare la nostra esistenza: chi lo avrebbe mai detto? Quante volte abbiamo sentito dire dai capi di stato “Mai più!” .
La rappresentazione, priva di musica, non ha cambiamenti di scena, si svolge all’interno di una piccola pensione in una località di mare: pareti verdi, un tavolo, delle sedie, oggetti della vita quotidiana sobria e convenzionale. Sembra un mondo normale, in cui Meg, la proprietaria della pensione (Maddalena Crippa), appare gioviale, ma costantemente sopra le righe per i suoi atteggiamenti materni verso Stanley (Alessandro Averone), ma anche civettuoli, che fanno intuire un’attrazione nascosta. Stanley è l’unico ospite della pensione, chiuso in quell’ambiente domestico che non gli piace, ma lo protegge da un pericolo. Di lui non sappiamo nulla, pare che ogni tanto raggiunga il molo per suonare il pianoforte. Appare trasandato e sporco e in continua contraddizione: vuole la colazione, anzi la rivendica, anche se è immangiabile e sempre la stessa. E’ anarchico, collerico, aggressivo , ma forse è l’unico che si ribella all’ipocrisia che lo circonda. Normalità, inquietudine, prevaricazione, sensazione di assedio-minaccia, questi gli elementi della rappresentazione. E’ una macchina ben congegnata di trame, non si sa se reali o immaginate, tanto da diventare assurde. L’apparente normalità viene rotta dall’arrivo di due uomini Goldberg (Gianluigi Fogacci) e Mac Cann (Alessandro Sampaoli) di passaggio, ma che provocano in Stan reazioni di difesa, come se fosse arrivato quel pericolo che presagiva. In effetti con il festeggiamento del compleanno di Stanley tutto precipita, i personaggi si ubriacano, diventano sempre più aggressivi, con un blackout avvengono azioni gravi. Quando torna la luce Stan ha tentato di violentare la giovane Lulu (Elisa Scatigno) . Sulla scena emerge un passato di cui non sappiamo quasi niente e qui si inseriscono i due nuovi personaggi, che sono venuti a portare via Stan da un tale Monty, personaggio sconosciuto. Chi sono? Perché lo portano via? Aleggia un “non sense” che ci turba.
Nello spettatore, privo di riferimenti logici, nasce lo stato d’animo che qualcosa di brutto sta per accadere ed è una sensazione negativa perché non riesce a razionalizzarla. Per questo non tutto il pubblico è stato unanime nel tributare il suo consenso alla rappresentazione.
Il Compleanno va oltre l’assurdo attraverso i personaggi eccessivi realizzati da Stein e dagli attori, di cui possiamo sottolineare solo la bravura. Quel nemico indefinito, difficile da descrivere concretamente, che sta sopra di noi, come un destino ineluttabile, che spenge lo spirito creativo dell’individuo, ce lo portiamo a casa con un senso di smarrimento e solitudine. Solo il Teatro può mettere in moto questo tipo di riflessioni, come specchio della vita reale .