Siena questa volta non ce la può fare: lo scempio è troppo vasto
di Mauro Aurigi
SIENA. Per quasi mille anni Siena è stata una piccola grande capitale superando tragedie di dimensioni epiche da cui era sempre riuscita a riprendersi da sola. A metà Trecento la peste: dei 50.000 abitanti ne sopravvissero solo 5000. Ma si riprese, tornando a tener testa, unica in Toscana, alla potentissima Firenze. Ma due secoli dopo ecco i sette anni di terribile guerra, combattuta da sola contro la Spagna e i Medici: quando sopravvennero, inevitabili, la sconfitta e la perdita dell’indipendenza, dei 30.000 abitanti solo 6/7000 erano ancor vivi, con tutto lo Stato, da Staggia all’Argentario, messo a ferro e fuoco dall’invasore. Pareva impossibile che potesse ancora riprendersi. Eppure ancora una volta ce la fece tornando col tempo ad essere la piccola, colta, raffinata capitale del suo Stato. Ma ancora due secoli ed ecco quella che sembrò la mazzata finale, il colpo di grazia: nel 1786 il Granduca Lorena abolì il suo Stato e ridusse Siena a semplice municipio, con i confini territoriali limitati alla propria cinta muraria (tutta la campagna fu assegnata alla potestà dei “comunelli”). Sembrava che fosse finita per sempre, eppure in due secoli, nonostante l’emarginazione geografica e l’isolamento culturale, potenziando con amore le sue antichissime istituzioni (in testa il Monte, lo Spedale e l’Università), difendendole con le unghie e con i denti dalle avidità dei potentati di turno, la Piccola Grande Capitale piano piano tornò a splendere. Sul finire del passato millennio la più piccola città della Toscana – solo 50.000 abitanti – ha, per tacere del resto: il più grande ospedale della regione; un’Università con 25.000 studenti; una Banca (la quinta o la quarta d’Italia e la più solida d’Europa) con 20.000 dipendenti; una festa, il Palio, che non ha rivali in Italia e che qualcuno per fama classifica al secondo posto nell’Occidente dopo il Carnevale di Rio . Con questa realtà doveva fare i conti non solo Firenze, ma anche Roma. La Piccola Grande Capitale era tornata.
E i Senesi avevano bene il diritto a dichiarare ad ogni piè sospinto il loro anarchico orgoglio. Perché nessun governante o capo politico ha mai potuto arrogarsi il merito di quel ripetuto risollevarsi di Siena dopo tragedie che sembravano letali (e lo sono state per altre realtà consimili). No, il merito fu tutto e sempre del suo popolo. Ancora oggi di tutto quello che i Senesi hanno (avevano), ed è (era) molto, non devono ringraziare nessuno, né un capo politico o un principe, re, papa o capitano d’azienda, ma solo se stessi.
Ma ora è finita. In meno di 20 anni la Piccola Grande Capitale è stata ancora una volta devastata: dall’ultima tragedia che coinvolge la banca, l’università, l’ospedale e il comune (e siamo solo all’inizio), è impossibile che ci si possa risollevare. Sembra che quei Senesi non ci siano più o che non abbiano ancora capito in quale baratro stiamo precipitando. Altrimenti i responsabili morali e materiali della catastrofe, ossia tutta la partitocrazia cittadina, non girerebbero tranquilli per la Città, non apparirebbero sui media a riproporsi, proprio loro, come futuri salvatori della patria.
Tre o quattro giorni fa Gabriello Mancini e Alfredo Monaci ridevano tranquilli in Banchi di Sopra davanti al Monte. Che cosa avevano da ridere, così “coram populo”, mentre avevano più di un grave motivo per non farsi vedere in pubblico? Cosa gli dava tanta serenità? Forse la certezza che anche domani loro continueranno a ridere indisturbati, mentre noi, umiliati e imbelli, invece piangeremo anche per colpa di loro due?