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Direttore responsabile Raffaella Zelia Ruscitto
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Il grande basket del

Se n

di Enrico Campana

SIENA. Mai trascurare i segnali. Capisco, adesso, certe cose alle quali al momento non avevo dato valore. Nell’istante in cui a 83 anni ci stava lasciando un po’ spogli di veri valori, prima di uscire di casa due giorni fa ho lasciato un messaggio in segreteria a Carlo Recalcati come facevo ogni tanto per chiedergli delle condizioni di salute del “sciur Aldo”. Charlie non mi ha richiamato, succede spesso oggi nel basket dove la priorità ce l’hanno le telefonate degli agenti. Mi sono incamminato nel bosco fermandomi davanti alla Madonnina del Colle degli Ulivi. Una cornacchia continuava a gracchiare, mentre, mettendo un piede su un cespuglio di violette da un blu intenso, un effluvio si spandeva nell’aria. Erano le stesse fragranze che rasserenavano, mandavano via i problemi, che in primavera e in estate mi regalavano i boschi della sua stupenda fonte sotto un colle, con uno chalet in legno stile Valtellina. Credo si trattasse della famosa Plinia acquistata dalla famiglia Caselli, i signori dell’ Oransoda, dove sgorgava acqua minerale.

In quel buen retiro intatto, semplice, senza ostentazioni da parvenu, tipo la piscina o la jacuzzi, le statute di Minerva in gesso, la Fontana simil Boboli, l’Aldo trascorreva la domenica in famiglia, con l’amabile sciura Mariuccia e i figli Roberto (che in seguito avrebbe raccolto la sua eredità e ricoperto la carica di presidente di Legabasket) e la Betti, giovane dottoressa con forte carisma professionale che da lì a poco sarebbe diventata la signora Marzorati. Nozze obbligate, nozze ideali fra due campioni della meglio gioventù.

Era il rito semplice ma ricco di calore e di ospitalità, in attesa di andare alla partita. E ogni tanto se c’era una partita di cartello, perché a quei tempi Cantù era davvero fortissima, e tutta costruita con i giovani del proprio vivaio che venivano dal circondario, come Ciccio Della Fiori e Farina, due fanti eroici che oggi non entrerebbero in palestra, o nascevano nell’orto di casa come il Pierlo (Marzorati), l’opera d’arte più ammirata fra le tante dei grandi mobilieri di Cantù, la capitale dei gandi marchi quali Cassina e Busnelli o di artigiani come l’Alfredo Broggi, uno che ci sapeva fare, un grand’uomo tanto che senza parlare una sola parola straniera, avventurandosi in un francesismo ardito, tipo quel “a fra peau..” quando si congedava dall’ospite straniero, ha “fidelizzato” arbitri leggendari, come il bulgaro Arabadjan, una specie di Lucifero del fischietto che ripartiva da Cantù con qualche pezzo di ricambio per la sua auto.

Sì, quella Cantù che ereditava anche una forte passione cittadina per questo gioco di sapore americano cooptando via via i pionieri, come Carlo Lietti, il fedele segretario-ufficio stampa, e gli importati, come l’intelligentissimo e facondo coach bolognese Gianni Corsolini fermatosi in quelle terre fertili dopo variue metamorfosi, era uno squadrone non solo in Italia, e aveva trovato la sua collocazione in Italia fra Varese e Milano, riuscendo a diventare anche la prima in Europa. E come staff di collaboratori, era nel suo piccolo come il Milan di oggi, un ortopedico come Albino Lanzetta al quale è subentrato il figlio, e il più famoso chiropratico al mondo, Jean Pierre Meersemann, il belga che fu sequestrato da uno degli sceicchi più ricchi al mondo e che Agnelli avrebbe ricoperto d’oro, passato da lì per arrivare al Milano calcio degli anni d’oro. Dopo aver fatto il miracolo, in occasione in una delle due coppa dei Campioni vinte, credo quella della Ford dell’83 quando nell’ultimo allenamento Marzorati si infortunò alla caviglia e l’indomani riuscì miracolosamente a rimetterlo in campo e a conquistare il trofeo.

Il sciur Aldo non era il classico cumenda lombardo borioso del “quant el custa…” o “ghe pensi mì…” impegnato a voler ostentare il suo successo sociale ed economico, come mi è capitato di incontrare talvolta. Una volta ero ospite a Erba, e la moglie di un cumenda del calcio, un tempo aveva lavoratrice in una filanda, chiamava la cameriera, vestita in nero e il grembiule con le trine di Cantù, col trillo di un campanellino d’ottone a forma di tartaruga che aveva la coda a forma di levetta per quell’uso..

E’ rimasto quel fedele contabile del signor Casella del quale un giorno raccolse la sua eredità. Ecco perché professionisti importanti dedicavano il loro tempo, ripagati da una passione fatta d’esempio, educativo, di stampo familiare che non lasciava indifferenti. E non suscitava invidie, al massimo, per cercare di dissimulare la grande ammirazione, l’avvocato Porelli chiamava il sciur Aldo e la sua società “i pretoni di Cantù”.

Come giornalista della Gazzetta dello Sport anch’io, a volte, abbinavo il lavoro con una sana domenica passata con un’invidiabile (soprattutto adorabile) famiglia lombarda costruita sul lavoro, l’impegno e la parola. E con la fortuna di essere a tavola col capofamiglia, esempio vivente del campione del boom economico italiano dei tempi, del fare cose grandi ritenendosi piccolo, quell’economia di bottega che diventata progetto, macro-economia anche nello sport pensando, magari, a costruire il college, a garantire il titolo di studio a ragazzi con problemi di inserimento (il caso del povero Vendemini, il gigante riminese che si vergognava dei suoi 117 centimetri nascondendosi nel fienile dei genitori contadini quando qualcuno veniva a proporgli un provino sportivo), e anche a costruire oltre una bella foresteria col dopo-scuola anche un palazzo dello sport privato, con tanto di mutuo, come quello realizzato assieme ad altri amici, fra i quali Francesco Corrado, il grande commercialista venuto dal Piemonte che più tardi ne raccoglierà l’eredità e sarà anche il terzo presidente di Legabasket uscito dal “college” di Cantù.

Era, quell’epoca, mica come adesso che si vogliono fare le feste perché ci sono gli sponsor e la Tv e ci si può fare belli, anche se magari è rimasto solo il fumo e l’arrosto qualcuno se l’è spolpato, e viene pure ammirato per la cupidigia e la furbizia.

Arrivato al cancello, il sciur Aldo chiamava la Mariuccia (“C’è l’Enrico…”) e mi portava al bosco a sentire il profumo di violette, o dei crocus che annunciavano l’uscita dell’inverno o in piena estate per la raccolta dei mirtilli. Questo prima e dopo il pranzo, la tavola apparecchiata con tovaglia e tovaglioli ricamati, cristalleria di Boemia, raffinatezza e semplicità, come nei piatti: antipasto di grandi salumi, la lasagna, in primavera gli asparagi e spesso lo stinco di maiale con le patate novelle. E naturalmente pasteggiando con una buona bottiglia di Ferrari che a quel tempo era poco conosciuto, e certamente acquistò fama rivaleggiando con lo champagne francesi grazie anche alle sue intuizioni di buongustaio e imprenditore. Ho visto spesso alle partite importanti anche gli Aneri, grandi vignaioli delle bollicine, amici che arrivavano con le stupende magnum che, sempre più frequentemente, venivano stappate dopo i successi, i tanti successi perché ancor oggi la famiglia della bottega di Cantù che ha saputo conquistare anche il Clemente di Metternich della pallacanestro mondiale, quel Bora Stankovic, che ha dato a Cantù il primo scudetto e l’impostazione professionale che via via è diventata una fortunata eredità per grandi allenatori quali, Taurisano, Bianchini, Diaz Miguel. E anche dirigenti come Lello Morbelli.

Tengo in casa una foto ricordo col Sciur Aldo che mi accoglie con un sorriso da buon padre di famiglia, elegantissimo nel suo smoking bianco. E’ stata scattata nella villa francese dei Polti, quelli del Vaporetto, una delle sue tante conquiste fortunate, fra le quali c’è stata anche la famiglia Gabetti, che conquistata da questo modello acquisterà Milano portandola ai massimi livelli con il figlio Giamario. Arrivavano i nuovi tempi, il basket stava cambiando, ma se Cantù è ancora lì, a un passo dai primi e assieme a una firma come Armani, è perché è sempre l’esempio el passato a costruire il futuro.

Aldo Allievi ha dimostrato che un “gazusatt” può diventare un imprenditore, oggi è più facile che un grande imprenditore rischi di diventare un gazusatt. Nel colorato dialetto lombardo, il gazusatt è colui che un tempo vendeva acque con le bollicine, le cedrate, i chinotti, le gazzose appunto e le famose bibite dell’Oransoda. Alla sua salute, signor Aldo, è stato bello stare con voi, spero abbia apprezzato per non aver dato alla rosea lo scoop del trasferimento di Antonello Riva a Milano.

Lei voleva sapere il mio parere, diavolo d’un pretone, mi ha tolto il diabolico piacere di ogni giornalista vecchio stampo, la notizia esclusiva.

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