di Enrico Campana
SIENA. Non è vero che il basket è freddo, ancorato alla visione cinica delle statistiche, vive come una porta girevole, stranieri e allenatori che vengono e vanno, e non ricorda. Nella Sala Rossa del CONI giovedì 18 dicembre viene presentato il libro “T’Abbraccio” dedicato a Maurizio Martolini, con un’introduzione particolarmente affettuosa del presidente Petrucci riservata a questo arbitro amatissimo, esempio unica di tecnica carattere e vivacità, e considerato un vero caposcuola dai molti colleghi e allievi che assieme alla famiglia hanno voluto intitolargli una Fondazione. Ma il libro il cui titolo sottolinea il caratteristico saluto che riservata a tutti, dimostra che Martolini è stato apprezzato anche da molti “esterni”, presidenti di società, giocatori, allenatori, giornalisti.
“Sicuramente non era un bastardo – scrive Dino Meneghin, il più famoso giocatore italiano che si appresta a diventare presidente della Federbasket – uno di quelli che ti aspettano per stangarti. Sapeva come parlare, nei limiti, ai giocatori. Assieme a Paolo Fiorito, con cui arbitrava, ha contribuito alla sprovincializzazione della pallacanestro italiana. Non era protagonista, non s’imponeva sui giocatori, e ho sempre ricevuto un avviso di garanzia prima del fallo”.
“Lui e Fiorito – riconosce Dan Peterson, ai tempi temuto “mangiarbitri” – avevano un’intesa ad occhi chiusi, per questo non ho mai avuto problemi.Non potevo essere d’accordo per una decisione, ma non per il metro arbitrale. Sono stati grandi arbitri anche delle grandi partite, avevano sempre lo stesso metro e questo mi dava fiducia”.
Ricordo che un altro grande personaggio visto come un Torquemada dagli arbitri, Aldo Giordani, il giornalista delle più belle telecronache del basket per il quale “gli uomini in grigio erano un vero flagello e determinavano la classifica in base al volere della Fip dei votaioli federali” gli riconobbe il titolo di “princeps” romano contrariamente a un collega minore che dopo uno dei famosi spareggi Ignis-Simmenthal che hanno contribuito al boom del basket scrisse che erano inadatti…
E’ stato invidiato, Maurizio, per l’autocontrollo, la capacità di sdrammatizzare, e anche copiato per la sua mimica unica, da vero teatrante, un amore di gioventù; quella sorta di arbitro-acrobata del sovietico Davidov che sembrava uscito dal teatro di Marcel marceau, uno degli arbitri designato come lui per le Olimpiadi di Monaco, mi confessò anni dopo che aveva preso spunto dalle gags di Maurizio, come quando levava la gambetta destra in alto e faceva scendere il gomito per segnalare un fallo particolarmente duro.
Tutti i fischietti della Serie A, a cominciare dal loro capo Luciano Tola, sono passati sotto le sue “forche caudine”, e finita la carriera che naturalmente gli ha riservato pagine uniche, Maurizio è diventato il “grande capo” come autorità ma anche “spirituale” di due generazioni di arbitri. Quelli che dirigono oggi in Serie A sono tutti passati nella sua selezionante “filiera”, e non poteva mancare anche una continuità in famiglia essendo uno dei due figli laureati che hanno suggellato un matrimonio perfetto con l’affascinante Ombretta, anch’essa coinvolta professionalmente nel basket, un arbitro in carriera. Si tratta di Alessandro, giovane avvocato dell’Ufficio Affari Legali e Regolamenti del CONI, chiamato ormai a dirigere partite del primo livello.
I giornalisti che seguivano il torneo di basket delle ultime Olimpiadi di Pechino, non potevano credere ai loro occhi. I due fischietti italiani, Facchini e Lamonica, hanno avuto il coraggio di fischiare passi di partenza agli americani del Dream, Team, e mai hanno perdonato il fallo di sfondamento, quello dell’attaccante, per quel senso di parità perfetta che Martolini e peraltro anche molti grandi colleghi del tempo, i Vitolo, Duranti, e così via, hanno sempre rispettato. Il loro motto era arbitrare con la testa e non col bilancino.
“Amava sempre dire che a lui bastavano 3 minuti per valutare se un arbitro era buono o una pippa, e ora posso dire che era vero”, confessa Fabio Facchini mentre Lamonica racconta di averlo visto piangere quando a Varese nell’87 decise di smettere.
Nel bel libro, completato da una documentazione color osso di seppia e fotografie in campo e fuori, che potrebbe essere stato un vero copione per un film alla Rosi e alla Monicelli dal possibile titolo “L’arbitro”, ho scritto che incarnava la perfetta metamorfosi fra Clark Kent e il suo alias Nembo Kid:“è stato straordinario perché nonostante corresse sui talloni, con gli occhiali appannati dal sudore, non sbagliava un fischio”.
Ho raccontato naturalmente che finita la gara si buttava sul pacchetto di sigarette, che conosceva l’arte e collezionava dipinti d’autore e tabacchiere d’argento e mi sono permesso di affermare che ha avuto meno di quanto gli spettasse come dirigente in un basket troppo litigioso e gestito artatamente nel segno dell’autonomia. Ma solo presunta, creata ad arte per un “divide et impera” da basso impero.
Quando 10 anni fa decisi di cambiare… sport, ho ricevuto con insistenza molte offerte per rientrare nel basket ma quella più insistente è stata di Maurizio Martolini, mi dispiace non averlo esaudito, gli spiegavo con una similitudine colorita che questo sistema è ormai tanto inveterato che non lo cambi nemmeno se tutti i cinesi si mettono a fischiare, i timpani di lor signori resisterebbero. Figurati cosa può fare un’opinione sola. Spero Maurizio che mi perdoni due cose, magari per qualche giudizio sbagliato e di non avergli dedicato mai una vera intervista. Maledetti i giornali che dicono che gli articoli sugli arbitri non li legge nessuno, se gli hanno dedicato un libro intero con tante firme illustri vuoi che non ci sia una ragione?.