Il nemico prencipale dei chili (di troppo o in meno) è il senso di colpa
di Antonio Vona*
SIENA. Nell’attività di nutrizionista ci si imbatte, a volte, in risvolti della personalità che possono coinvolgere, direttamente o indirettamente, il rapporto con l’alimentazione, quando questa non viene più intesa come una necessità nutrizionale e nemmeno come un momento conviviale, né, tantomeno, gratificante; talvolta alla propria alimentazione vengono assegnati, infatti, precisi compiti distruttivi e punitivi, che ne fanno un potente strumento nelle mani di una persona generalmente abbastanza forte, ma indebolita dalla sua stessa storia.
Ecco quindi i racconti di oppressioni morali o fisiche, a volte chiare e manifeste, ma più spesso sottili, subdole, innocue all’apparenza, contro le quali non si riesce quasi mai a lottare al momento giusto solo perché non le si riconosce se non dopo anni, quando ci si ferma a riflettere e a tirare le somme. Ci si accorge allora che certi aspetti della propria personalità, incomprensibili anche a se stessi, hanno la loro origine in quelle storie di disadattamento a situazioni inaccettabili, ma da sopportare. Sono storie di sottomissione forzosa a familiari, coniugi, superiori, colleghi, persino amici: in generale a chi ha abusato del suo potere e della sua autorità. Il ricorso al cibo diventa un tentativo di non pensare, di astrarsi da quella realtà e ripiegare su una realtà diversa e in teoria più gradevole.
Ci sono poi storie di errori imperdonabili, fallimenti, indecisioni eterne seguite poi da decisioni immancabilmente sbagliate. L’autostima scende sotto zero, il rimprovero verso se stessi diventa una costante quotidiana, il disprezzo di sé induce ad idee di autopunizione. Non sentirsi a posto con il proprio alto senso del dovere porta molte volte a non poter essere in ordine nemmeno con il proprio corpo: e fare di tutto, quindi, per deformarlo, imbruttirlo, trascurarlo ed essere costretti ad esibirlo in questo stato. Che grande punizione! Ho sentito espressioni del tipo ‘devo punirmi, perciò mi abbuffo’. Ho visto persone reagire alla perdita di peso, abbandonare, con scuse rattoppate in qualche modo, una dieta che stava rischiando di rovinare il loro progetto e di farle sentire a disagio con la loro idea di colpevolezza. Così la propria posizione viene in qualche modo regolarizzata: ‘ho sbagliato e devo pagare’. Almeno fino a quando giunge improvvisa la riflessione che il corpo sta pagando pesantemente per errori che dopo tutto non è stato lui a commettere.
Altre storie risalgono alla difficoltà che alcuni incontrano di stabilire stabili relazioni affettive o di amicizia con gli altri: sono racconti costellati di delusioni, tradimenti, voltafaccia, abbandoni. La situazione diventa davvero complicata quando una persona soggetta a questi trattamenti non riesce a spiegarsene il motivo, né trova in sé un qualcosa che possa giustificare questo comportamento degli altri verso di essa. Non rimane che crearselo il motivo, diventare antipatici, incostanti, pignoli e, dulcis in fundo, ingrassare. Col vantaggio di evitare di incorrere in altri episodi dello stesso genere.
A volte, perciò, chi si rivolge al dietologo si porta dietro problematiche personali che possono determinare in vario modo il successo o l’insuccesso della dieta. Può rendersi necessario perciò richiedere al paziente piccole tappe successive, più che ‘ordinargli’ d’un colpo una dieta basata su uno sterile calcolo delle calorie.
* Biologo nutrizionista