di Enrico Campana
SIENA. Da ben 10 anni l’Italia manca di una politica sportiva. Salvo i Benetton, i grandi potentati si sono buttati sul calcio che volente o nolente resta un grande affare, salvo il presidente che guadagna meno di quello del basket (250 contro 350 mila all’anno). Il calcio è un affare economico e di consenso popolare. La longa manus di Gianni Letta ha – di fatto – creato una zona franca che corrisponde al CONI, guai a toccare da destra o sinistra lo sport.
Mi auguro che il “mio”impareggiabile direttore del Tempo, come si legge, sia il prossimo presidente del Consiglio. Così Gianni Petrucci potrà smarcarsi, creare una riforma strutturale dando per scontato che non potendo essere rieletto (a proposito: ho perso il conto dei mandati, ne ha fatti 3 o 4?) il suo santo protettore gli affiderà il Ministero dello Sport. Quando mai strategico: lo sport è salute, educazione civile, relazioni, e integrazione. Un problema quest’ultimo che merita une sempio: gli Stati Uniti ai tempi della grande immigrazione europea dei primi 900 chiesero aiuto ad esempio al baseball, uno sport in cui praticamente non serviva la parola e diventava la lingua comune di molte etnie, dai portoricani agli italiani come il grande Joe Di Maggio..
Lo sport italiano era in riserva da molti anni. Si è salvato a Pechino solo grazie alla formidabile spinta derivante dal settore femminile e dalle discipline di nicchia, quelle meno praticate. Ma lampeggiava già la lucina rossa per quanto riguarda gli sport di squadra e le discipline più popolari, atletica e ciclismo. Mai però a commento dei Giochi fu più infelice la polemica coi cugini spagnoli e francesi che ci stavano alle spalle. Se andiamo a vedere, questi due paesi hanno monopolizzato quest’anno i titoli europei di categoria maschili e femminili del basket, mentre l’Italia – Giochi del Mediterraneo a parte – fra le 24 medaglie possibili complessive dei tornei continentali non è andata oltre un 4° posto (Under 20 maschile).
Ma non è finita qui. L’anno post olimpico assume quasi le sembianze di una nemesi, se vediamo – nuoto a parte, anzi Pellegrini e c. a parte – i risultati dello sport azzurro. Quelli che avrebbero dovuto essere l’effetto della politica premiante del CONI. E cioè arroccarsi su un governo di proconsoli e di federazioni forti. Il primo imbarazzante caso non si è fatto attendere. Il ciclismo ha dovuto incassare il duro colpo del doping della sua medaglia d’argento, quella di Rebellin. Passano alcuni mesi e viene bocciata con onore (e qualche sospetto di combine, dicono dalla Federbasket…) la candidatura dei mondiali di basket dell’Italia. Sembra un cattivo presagio che va allo sconto, difatti, con la mancata qualificazione degli europei. La prima nella storia della nazionale dei giganti, con la scoperta oltretutto che in questo sport non abbiamo più un ricambio.
Non serve a molto il “totem Meneghin” messo alla presidenza, se non a creare la convinzione da parte dei club di A – ma forse anche dentro la stessa “rinnovata” (sic) federazione – che non si tratti altro di debole quisling, un bersaglio facile. Insomma ecco ricadere nell’inveterata abitudine italiana di mancare in quella parola musicale propria dello sport: loyalty, lealtà.
Scorrono intanto gli Europei di basket e, dopo la prima fase, c’è da mordersi le mani per essere rimasti fuori. L’anno post-olimpico è quello del ricambio, e penso non sarebbe stato difficile qualificarsi fra le prime 6 per i mondiali (anzi fra le 7, dando per scontato che la Turchia di Bogdan Tanjevic è già qualificata d’ufficio quale paese ospitante nel 2010 e cederà il diritto a un’altra europea).
Nel frattempo, l’atletica passa dal periodo dei Fiasconaro al “fiasco totale” (c’è sempre, come nel basket, la prima volta…) ai mondiali di Berlino. Ecco infine arrivare in questi giorni le delusioni del volley, lo sport che ci ha regalato più medaglie nelle gare squadre negli ultimi 20 anni. Sì, anche questo un altro feudo forte dentro il CONI.
Di fronte a questi fatti non è certo una bella prospettiva quella dell’Olimpiade di Londra a meno di 3 anni, quando il primo anno – il più prezioso, quello della programmazione, del progetto (ma chi l’ha visto, please?) è già stato – buttato al vento. Cosa fare? A parte la (lasciamo stare l’aggettivo nuova…) commissione di saggi, fra cui l’Arrigo Sacchi, ormai prossimo all’imbalsamazione, che dovrà valutare il lavoro dei vari settori tecnici disciplina per disciplina, entrando anche in campi del tutto sconosciuti, si procede la politica del buffetto. Il basket a furor di popolo vorrebbe sacrificare l’attuale CT, ma da Monte Mario il presidentissimo viste anche le polemiche del volley fa di tutta l’erba un fascio e ammonisce: “Sì, gli sport di squadra sono in crisi, ma c’è fiducia nei tecnici”. Strano iter per risolvere una crisi strutturale ormi in bella vista. Invece di cambiare qualcosa, io confermo il tecnico. Ovvero: la politica dello struzzo.
Intanto mi diverto a seguire l’Eurobasket attraverso le prestazioni degli 11 giocatori della Serie A. Si tratta però di poco meno del 30 per cento dei ben 38 nomi che scorrendo i roster delle squadre hanno militato nella Serie A italiana. Si tratta dei senesi Lavrinovic (Lituania) e Zizis (il greco vecchia conoscenza Benetton), dei polacchi della Pepsi Caserta (Lukasz Koszarec) e di Avellino (Szymon Szewczyk), dei tre croati della Benetton (lo zietto Nicevic e i nuovi arrivati Kus e Hukic, della coppia lituana di Milano-Armani Maciulis e Petravicius. E ancora del moro scozzese Achara che Biella ha preso dalla Fortitudo e dai bulgari di Montegranaro (Deyan Ivanov) e Earl Rowland (Cremona). Quest’ultimo fino ad oggi largamente il migliore (fatto salvi i coaches, l’italo-montenegrino Tanjevic e l’italo-spagnolo Scariolo) dell'“undici” della Lega-spaghetti: figura ai primi posti in diverse classifiche e 1° nei minuti giocati (37 di media) anche se la sua squadra è stata bocciata. Earl il moro è un americano nato a Francoforte, quest’anno ha deciso di prendere ( a buon mercato) la cittadinanza cestistica bulgara. E potrà giocare nel campionato italiano come comunitario sull’esempio di Ibrahim Jaaber, il versatile newyorkese di Roma che nelle qualificazioni europee l’anno passato prestò servizio alla patria bulgara risultando decisivo contro… l’Italia.
Non riesco a capire se questi esempi facciano bene al basket, se alzino o abbassino la popolarità, soprattutto se sia giusto che tolgano il posto a un giovane italiano. Questo è un discorso troppo complesso, è uno scontro fra dogma e affari. Non sai mai chi trionferà, perciò mi astengo. Parlerà la … storia.
Voglio intanto rassicurare gli amici senesi sui loro investimenti. Il “ragionier” Zizis sta svolgendo con massima diligenza il ruolo di play titolare della Grecia nel girone più facile. Vedremo quando dovrà misurarsi – anche fisicamente – con i migliori play europei e americani. Lavrinovic invece aveva iniziato malissimo, anzi un vero disastro: 2/5 dentro l’area, 1/9 dai 3 punti, nessun tiro libero, 3 soli rimbalzi nelle prime due partite. Quelle perse dalla Lituania, a rischio eliminazione. Ma sul 66-64 a ‘5’32” dalla fine coi bulgari ha segnato 6 dei 10 punti che hanno salvato, grazie anche a 4 assist e 6 rimbalzi, la sua titolata squadra.
Non è però Siena, da quel che vedo, che deve preoccuparsi dei suoi “europei” ma credo piuttosto l’Armani per la sua pesca lituana. Sì, quest’anno andrà di moda il basket lituano, mentre è già passato quello slavo, che invece è vivo e vegeto, nonostante la diserzione di quasi tutti i giocatori NBA. Il 30enne Petravicius – a proposito dei suddetti lituani – è un lungo di mestiere. “Marione” ha punti nelle mani ma non chiedetegli il dominio dei rimbalzi: può essere il centro ideale per ambizioni di scudetto o Eurolega? Mentre di Jonas Maciulis per ora non ho visto un solo briciolo di gran talento di cui è accreditato. Temo però che il suo, nelle trafficate aree del basket-spaghetti, sarà un duro apprendistato. Come quello del resto di un giocatore molto simile, Koponen, il finlandese della Virtus e di “chi l’ha visto?”.
SIENA. Da ben 10 anni l’Italia manca di una politica sportiva. Salvo i Benetton, i grandi potentati si sono buttati sul calcio che volente o nolente resta un grande affare, salvo il presidente che guadagna meno di quello del basket (250 contro 350 mila all’anno). Il calcio è un affare economico e di consenso popolare. La longa manus di Gianni Letta ha – di fatto – creato una zona franca che corrisponde al CONI, guai a toccare da destra o sinistra lo sport.
Mi auguro che il “mio”impareggiabile direttore del Tempo, come si legge, sia il prossimo presidente del Consiglio. Così Gianni Petrucci potrà smarcarsi, creare una riforma strutturale dando per scontato che non potendo essere rieletto (a proposito: ho perso il conto dei mandati, ne ha fatti 3 o 4?) il suo santo protettore gli affiderà il Ministero dello Sport. Quando mai strategico: lo sport è salute, educazione civile, relazioni, e integrazione. Un problema quest’ultimo che merita une sempio: gli Stati Uniti ai tempi della grande immigrazione europea dei primi 900 chiesero aiuto ad esempio al baseball, uno sport in cui praticamente non serviva la parola e diventava la lingua comune di molte etnie, dai portoricani agli italiani come il grande Joe Di Maggio..
Lo sport italiano era in riserva da molti anni. Si è salvato a Pechino solo grazie alla formidabile spinta derivante dal settore femminile e dalle discipline di nicchia, quelle meno praticate. Ma lampeggiava già la lucina rossa per quanto riguarda gli sport di squadra e le discipline più popolari, atletica e ciclismo. Mai però a commento dei Giochi fu più infelice la polemica coi cugini spagnoli e francesi che ci stavano alle spalle. Se andiamo a vedere, questi due paesi hanno monopolizzato quest’anno i titoli europei di categoria maschili e femminili del basket, mentre l’Italia – Giochi del Mediterraneo a parte – fra le 24 medaglie possibili complessive dei tornei continentali non è andata oltre un 4° posto (Under 20 maschile).
Ma non è finita qui. L’anno post olimpico assume quasi le sembianze di una nemesi, se vediamo – nuoto a parte, anzi Pellegrini e c. a parte – i risultati dello sport azzurro. Quelli che avrebbero dovuto essere l’effetto della politica premiante del CONI. E cioè arroccarsi su un governo di proconsoli e di federazioni forti. Il primo imbarazzante caso non si è fatto attendere. Il ciclismo ha dovuto incassare il duro colpo del doping della sua medaglia d’argento, quella di Rebellin. Passano alcuni mesi e viene bocciata con onore (e qualche sospetto di combine, dicono dalla Federbasket…) la candidatura dei mondiali di basket dell’Italia. Sembra un cattivo presagio che va allo sconto, difatti, con la mancata qualificazione degli europei. La prima nella storia della nazionale dei giganti, con la scoperta oltretutto che in questo sport non abbiamo più un ricambio.
Non serve a molto il “totem Meneghin” messo alla presidenza, se non a creare la convinzione da parte dei club di A – ma forse anche dentro la stessa “rinnovata” (sic) federazione – che non si tratti altro di debole quisling, un bersaglio facile. Insomma ecco ricadere nell’inveterata abitudine italiana di mancare in quella parola musicale propria dello sport: loyalty, lealtà.
Scorrono intanto gli Europei di basket e, dopo la prima fase, c’è da mordersi le mani per essere rimasti fuori. L’anno post-olimpico è quello del ricambio, e penso non sarebbe stato difficile qualificarsi fra le prime 6 per i mondiali (anzi fra le 7, dando per scontato che la Turchia di Bogdan Tanjevic è già qualificata d’ufficio quale paese ospitante nel 2010 e cederà il diritto a un’altra europea).
Nel frattempo, l’atletica passa dal periodo dei Fiasconaro al “fiasco totale” (c’è sempre, come nel basket, la prima volta…) ai mondiali di Berlino. Ecco infine arrivare in questi giorni le delusioni del volley, lo sport che ci ha regalato più medaglie nelle gare squadre negli ultimi 20 anni. Sì, anche questo un altro feudo forte dentro il CONI.
Di fronte a questi fatti non è certo una bella prospettiva quella dell’Olimpiade di Londra a meno di 3 anni, quando il primo anno – il più prezioso, quello della programmazione, del progetto (ma chi l’ha visto, please?) è già stato – buttato al vento. Cosa fare? A parte la (lasciamo stare l’aggettivo nuova…) commissione di saggi, fra cui l’Arrigo Sacchi, ormai prossimo all’imbalsamazione, che dovrà valutare il lavoro dei vari settori tecnici disciplina per disciplina, entrando anche in campi del tutto sconosciuti, si procede la politica del buffetto. Il basket a furor di popolo vorrebbe sacrificare l’attuale CT, ma da Monte Mario il presidentissimo viste anche le polemiche del volley fa di tutta l’erba un fascio e ammonisce: “Sì, gli sport di squadra sono in crisi, ma c’è fiducia nei tecnici”. Strano iter per risolvere una crisi strutturale ormi in bella vista. Invece di cambiare qualcosa, io confermo il tecnico. Ovvero: la politica dello struzzo.
Intanto mi diverto a seguire l’Eurobasket attraverso le prestazioni degli 11 giocatori della Serie A. Si tratta però di poco meno del 30 per cento dei ben 38 nomi che scorrendo i roster delle squadre hanno militato nella Serie A italiana. Si tratta dei senesi Lavrinovic (Lituania) e Zizis (il greco vecchia conoscenza Benetton), dei polacchi della Pepsi Caserta (Lukasz Koszarec) e di Avellino (Szymon Szewczyk), dei tre croati della Benetton (lo zietto Nicevic e i nuovi arrivati Kus e Hukic, della coppia lituana di Milano-Armani Maciulis e Petravicius. E ancora del moro scozzese Achara che Biella ha preso dalla Fortitudo e dai bulgari di Montegranaro (Deyan Ivanov) e Earl Rowland (Cremona). Quest’ultimo fino ad oggi largamente il migliore (fatto salvi i coaches, l’italo-montenegrino Tanjevic e l’italo-spagnolo Scariolo) dell'“undici” della Lega-spaghetti: figura ai primi posti in diverse classifiche e 1° nei minuti giocati (37 di media) anche se la sua squadra è stata bocciata. Earl il moro è un americano nato a Francoforte, quest’anno ha deciso di prendere ( a buon mercato) la cittadinanza cestistica bulgara. E potrà giocare nel campionato italiano come comunitario sull’esempio di Ibrahim Jaaber, il versatile newyorkese di Roma che nelle qualificazioni europee l’anno passato prestò servizio alla patria bulgara risultando decisivo contro… l’Italia.
Non riesco a capire se questi esempi facciano bene al basket, se alzino o abbassino la popolarità, soprattutto se sia giusto che tolgano il posto a un giovane italiano. Questo è un discorso troppo complesso, è uno scontro fra dogma e affari. Non sai mai chi trionferà, perciò mi astengo. Parlerà la … storia.
Voglio intanto rassicurare gli amici senesi sui loro investimenti. Il “ragionier” Zizis sta svolgendo con massima diligenza il ruolo di play titolare della Grecia nel girone più facile. Vedremo quando dovrà misurarsi – anche fisicamente – con i migliori play europei e americani. Lavrinovic invece aveva iniziato malissimo, anzi un vero disastro: 2/5 dentro l’area, 1/9 dai 3 punti, nessun tiro libero, 3 soli rimbalzi nelle prime due partite. Quelle perse dalla Lituania, a rischio eliminazione. Ma sul 66-64 a ‘5’32” dalla fine coi bulgari ha segnato 6 dei 10 punti che hanno salvato, grazie anche a 4 assist e 6 rimbalzi, la sua titolata squadra.
Non è però Siena, da quel che vedo, che deve preoccuparsi dei suoi “europei” ma credo piuttosto l’Armani per la sua pesca lituana. Sì, quest’anno andrà di moda il basket lituano, mentre è già passato quello slavo, che invece è vivo e vegeto, nonostante la diserzione di quasi tutti i giocatori NBA. Il 30enne Petravicius – a proposito dei suddetti lituani – è un lungo di mestiere. “Marione” ha punti nelle mani ma non chiedetegli il dominio dei rimbalzi: può essere il centro ideale per ambizioni di scudetto o Eurolega? Mentre di Jonas Maciulis per ora non ho visto un solo briciolo di gran talento di cui è accreditato. Temo però che il suo, nelle trafficate aree del basket-spaghetti, sarà un duro apprendistato. Come quello del resto di un giocatore molto simile, Koponen, il finlandese della Virtus e di “chi l’ha visto?”.