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Il caffè del Monte ha rovinato il sonno profondo della CGIL

Aurigi commenta l'intervento dei sindacati alla notizia dell'apertura di un bar in Rocca Salimbeni

di Mauro Aurigi

Poveri sindacati! E povera Cgil, ridotta a fare della stupida ironia ora che niente serve più, neanche la strategia di lotta più equilibrata, convinta e giusta.

La Cgil, con un secolo di esperienze e cultura alle spalle, era l’organismo politico che in Occidente aveva la più completa e perfetta consapevolezza della filosofia padronale (sì, “padronale” e non “capitalistica” è il termine giusto, quanto dimenticato). Per cui negli anni ’90, quando infuriò la polemica sulla privatizzazione del Monte, sapeva bene che “privatizzare” ha la sua radice in “privare”, ossia rubare al popolo. Sapeva che l’intero patrimonio della Banca sarebbe stato trasformato in azioni e quindi reso contendibile sul mercato. Eppure accettò e sostenne la “profezia” di Amato, D’Alema, Visco, Bassanini, Dini ecc., noti milionari (in euro) arricchitisi sulla pelle del popolo: sotto le loro amorevoli cure privatizzatrici, il già ottimo Monte, anzi la più solida, liquida e ricca banca d‘Europa fin quando era stata nelle mani dei Senesi, sarebbe diventata “chiù megghie assai”.  S’è visto com’è andata a finire.

Dopo quell’appoggio contro natura ‒ perché tale è stato il sostegno o la mancata opposizione a quella privatizzazione: non mi scandalizzano le altre sigle, ma la Cgil sì ‒ ha approvato col più servile ed entusiastico dei modi ogni passaggio negativo degli ultimi due decenni di vita della Banca ormai privata. Ossia tutti i passaggi, visto che di positivi non ce n’è stato neanche uno. Perché tra la privatizzazione del 1995 e il bidone dell’Antonveneta del 2008 c’è tutta una serie di “affari” assistiti raramente dal silenzio-assenso ma più spesso dall’entusiastico consenso del grande sindacato dei lavoratori. Si tratta di decine e decine di colpi di genio di Fabrizi-Mussari prima e Mussari-Mancini dopo, secondo la nuova filosofia gestionale del “meglio sembrare che essere” che aveva sostituito quella vecchia del “meglio essere che sembrare”:

–       –    L’acquisto del bidone Banca 121 che valeva zero, ma fu pagata subito 1,25ml e dopo costò forse altrettanto: senza contare i prodotti truffaldini “Myway” e  “4you” o la disastrosa gestione di De Bustis improvvidamente passato dalla DG della 121 a quella del Monte con tutta la sua squadra, basti pensare, a titolo d’esempio, che per far apparire in utile la scassatissima Banca 121 se ne ricompravano a caro prezzo alcune filiali che il Monte aveva già interamente pagato all’atto dell’acquisto dell’intera banca salentina).

–        –    La svendita della Cassa di Prato (valeva largamente più del doppio della 121 ma fu venduta per soli 0,4mld).

–   —   Il passaggio a utili d’esercizio di riserve prodotte dalla vecchia banca pubblica e contemporaneamente la vendita dei mutui in ammortamento (cartolarizzazione): ossia il ricorso (incredibile ma vero!) agli utili del passato e a quelli del futuro per nascondere perdite d’esercizio e pagare dividendi agli azionisti privati che di quegli utili non avevano alcun merito.

–       –     La vendita di proprietà immobiliari prestigiose (anche le filiali!), delle partecipazioni (anche quella del 6% nel San Paolo di Torino che faceva del Monte il primo azionista, dopo quella Fondazione, della più grande banca italiana); le plusvalenze così ricavate, ovviamente, subito trasformate in dividendi.

–        –    I quasi 30mld immobilizzati nei titoli di Stato (in proporzione 5 o 6 volte più del resto del sistema bancario).

L’elenco potrebbe continuare, ma basta e avanza per capire come il Monte sia arrivato alla scandalosa acquisizione dell’Antonveneta assolutamente in ginocchio, senza un centesimo in cassa e senza patrimonio da realizzare. Anche allora la Cgil brindò all’eroica impresa con Mussari, Mancini, Ceccuzzi e Cenni  (anche quest’ultimo, funzionario del Monte, non ci aveva capito niente: ma come non meravigliarsi!?). Il giorno dopo il Monte perse il 14% in Borsa e il Banco Santander guadagnò il 10%: i normo-dotati del mercato lo avevano capito subito, i subdotati, ossia i deficienti del Monte, ci misero più di un anno.

Dopo tanti silenzi-assenso e soprattutto dopo tanto consenso per operazioni di quella devastante portata, ecco che finalmente  la Cgil fa fuoco e fiamme. Ma mica perché la Città che aveva il 100% del Monte, pari allora a 20mld, ne ha ora solo il 2%  pari a neanche 0,4mld senza neanche avere ricevuto in pagamento un centesimo di quel 98% che le è stato scippato. Ci mancherebbe! No, fa fuoco e fiamme perché si è sparsa la voce che Profumo vuole mettere un caffè elegante dentro a Rocca Salimbeni.  E ora su questa iniziativa, evidentemente considerata potenzialmente devastante per la Banca, la Città e il suo territorio, la Cgil vuol sapere tutto quello che non gli è mai neanche passato per testa chiedere in occasione delle operazioni di cui sopra.

Per giunta la Cgil dimostra una volta di più di non avere capito niente. Oppure ha capito tutto, ma fa la furbetta fingendo nei confronti del Padrone un dissenso che neanche lei prova. Perché se il Padrone, nel rispetto delle leggi, vuole aprire un bar nella sua proprietà non c’è barba di potere che possa impedirglielo. Né nessuno potrà impedirgli, se lo vuole, di trasformare l’intera Rocca in un centro commerciale. Oppure quando deciderà, nello spacchettamento generale del Monte (succederà, oh sì,  che succederà), di vendere al migliore offerente i quattro palazzi (del Duecento, Trecento, Quattrocento e Cinquecento) che formano la Rocca. Perché la Cgil ancora non l’ha capito che dopo la privatizzazione a cui lei stessa ha dato una sostanziale mano, quella cosa unica al mondo che è la Rocca Salimbeni ‒ confiscata nel Quattrocento dall’allora libero Comune agli omonimi banchieri per aver dovuto onorare con le casse pubbliche i debiti del loro fallimento ‒ non appartiene più alla nostra comunità, alla nostra Città, ma a privati che spesso sono anche  poco specchiati sul piano giudiziario (alcuni, come Gnutti, uno dei “capitani coraggiosi” di D’Alema, sono già condannati ed altri rischiano uguale destino). Che faremo allora? Ce li compreremo una seconda volta (ne avessimo i soldi!) secondo la logica italiota che vuole il privato, Cgil complice, sempre ingrassato con la ricchezza pubblica?

PS: se la Cgil del Monte riappare sulla stampa deve avere ancora la forza che gli viene dal consenso dei lavoratori. Ed allora non posso non pensare che “errare umanum, perseverare diabolicum”. E la mia solidarietà, la mia pietà per l’incerto destino di quei miei ex-colleghi continua a scemare.  

 

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