Dalla dura esperienza dell'ex prorettore resta la speranza di poter disegnare un futuro diverso
Quella che lei chiede, allo stato attuale, è una delle operazioni più complesse e difficili da porre in atto. Si richiede, infatti, senso delle Istituzioni, spirito di abnegazione, visione del “bene comune”, esclusione di interessi particolari.
Sulla base di queste premesse – mi consentirà di far riferimento ad una esperienza personale – ormai più di tre anni or sono, accettai di collaborare in prima persona al tentativo di risanamento dell’Ateneo. Non sta a me dire se quel tentativo sia o meno riuscito, se vi siano stati o meno buoni risultati. Ho sempre creduto – ma di questi tempi pare una merce rara – che bisogna avere il buon gusto di non parlare bene di sé stessi. Chiesi più volte uno “spirito unitario” proprio per il bene dell’Istituzione. Fui da molti inascoltato; fummo più e più volte ostacolati. Basta andare a rileggersi le cronache di quei mesi roventi. Eppure si stava tentando di salvare una antica Istituzione pubblica. In nome del “bene comune” tutta la Città, e dico tutta indistintamente, avrebbe dovuto stringersi intorno ad una delle sue Istituzioni più prestigiose. Non accadde. O meglio: solo alcuni, e fu una minoranza operosa lo fecero, lavorando concretamente (e sottolineo il “concretamente”), per il bene dell’Istituzione. Le ragioni sono complesse: personalmente le compresi immediatamente, ma non è questa la sede per ragionarne. Sarà materiale per gli storici del futuro.
In ogni caso va da sé che, in questi ultimi due anni e mezzo, nei quali sono tornato a fare il mio mestiere di ricercatore e di docente (il mestiere che amo, e che continuo a svolgere con passione, in ciò ampiamente ripagato dal dialogo fecondo con i miei studenti) su quella esperienza ho dovuto necessariamente fare delle riflessioni. Tralascio volutamente i profili strettamente personali, sui quali molto ci sarebbe da dire, soprattutto in relazione ai discutibili comportamenti di molti. Ma v’è un dato innegabile: malgrado le dichiarazioni pubbliche, che erano di una scrittura cristallina, nelle quali confermai, più e più volte, che il mio impegno era esclusivamente istituzionale e a “termine”, si scatenarono i dietrologi, i diffamatori più o meno professionali, i cosiddetti “amici” che, improvvisamente, diventarono “avversari” palesi ed occulti, purtroppo per loro abituati a ragionare per “schemi” e per “convenienze”; vi fu addirittura, da parte della stampa, una richiesta di accesso agli atti del mio concorso da professore ordinario (svoltosi ben 10 anni prima e non a Siena), nel goffo tentativo di trovare qualche scheletro nel mio armadio. L’accesso, ovviamente, non venne assolutamente ostacolato. L’esito, purtroppo per chi stava tentando di trovare un’arma contro di me, fu pari allo zero. Non avevo nulla, ma proprio nulla, da nascondere. In ogni caso sono stato Le sono ancora oggi fiero di aver servito la mia Università.
Se ripenso a tutto questo – e tutto questo fu sì motivo di legittimo orgoglio ma anche, e soprattutto, fonte di fatiche e di grandi amarezze – mi domando perché, come membro della cosiddetta “società civile”, dovrei impegnarmi pubblicamente per risollevare le sorti della nostra Città la cui crisi, nel suo complesso, è esponenzialmente enorme (le due cose non sono paragonabili se non, forse, almeno in una parte delle cause) rispetto a quella dell’Università? L’ho già fatto una volta. Ed anche se non è stato un errore (continuo a pensarlo), perseverare potrebbe essere diabolico.
Per fare quello che Lei chiede occorrono forze nuove, competenze, professionalità, una mentalità nuova (che creda fermamente che la democrazia è innanzitutto partecipazione e, di conseguenza, trasparenza) e, soprattutto, alla luce della drammatica situazione economica cittadina, la consapevolezza che bisogna ricostruire un tessuto connettivo oggi profondamente lacerato se non distrutto, per operare in favore di chi la “crisi” la sta vivendo e la vivrà nel prossimo futuro sulla sua pelle, sia in favore delle nuove generazioni sostanzialmente prive, ad oggi, di una qualsivoglia prospettiva futura.
Io credo che sia possibile, sapendo però – e lo affermo alla luce dell’esperienza personale pregressa – che l’impegno da profondere dovrà essere totale, e che sarà comunque fonte di fatica, incomprensioni, amarezze, delusioni. Non solo per questo, ma forse anche per questo, la cosiddetta “società civile” tace.
Suo Giovanni Minnucci
Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno
nel ringraziarLa pubblicamente per il Suo prezioso intervento e per aver voluto condividere la Sua esperienza, mi sento di poter dire che il Suo stato d’animo combattuto tra la speranza di chi non si arrende e la rassegnazione amara di chi ha già tentato di operare per il bene della cosa pubblica ricevendone cocenti delusioni è quello che accomuna, oggi, più senesi di quanti Lei possa immaginare. Da tempo, da queste stesse pagine, cerchiamoo di spingere all’azione proprio quelle donne e quegli uomini che, profondamente e dolorosamente consapevoli della deriva morale, economica e sociale del nostro Paese, restano però incastrati nella battaglia intima tra la ribellione dei giusti e la mesta disillusione. A quelli che hanno già dentro di loro maturato e tenuto in vita la scintilla della responsabilità civile io mi rivolgo, non potendo, come forse altri saprebbero fare, essere io stessa l’origine di questa fiammella. La Sua risposta all’editoriale è, e voglio crederlo, la prova che questo tentativo non è caduto nel vuoto.
Forse i tempi duri – non solo riferiti a Siena – hanno spinto la gente a credere che non esista un mondo migliore di questo; che i concetti di giustizia, onestà, rispetto, bene comune, sono solo “colori” nelle mani di artisti visionari. La realtà appare ben diversa: è quella degli “amici degli amici” che riescono ad arrivare lì dove il merito e l’impegno non arrivano. La realtà è quella dei disastri senza responsabili e dell’arroganza del potere, a tutti i livelli e senza un freno. La realtà è quella della disfatta di progetti e tentativi volti al cambio di rotta rispetto ad una malagestione delle istituzioni insensata e utile soltanto a pochi. E, alla lunga, come si è visto, neppure a questi ultimi.
Ma la resa a queste storture a chi giova? Rinunciare e non volersi impegnare reclamando un ruolo nella società per quella fetta di persone valide, oneste, cariche di esperienze e di capacità da mettere a disposizione degli altri, anche e magari a gran voce e senza paura, cosa restituisce, prima che al resto del mondo, a noi stessi?
Lei non ha voluto approfondire la Sua esperienza ed io non Le dirò la mia. Ma, nel mio a volte profondissimo scoramento, resto aggrappata alla speranza che un giorno le persone come Lei non si sentano più così sole da rinunciare a combattere, strenuamente, per la ricostruzione di una società “sana” ed “evoluta”.
E’ una speranza che non posso proprio abbandonare perché è a fondamento del mio lavoro e della mia vita. E la Sua, per me preziosa, lettera è il segno che, forse, non spero invano.
Il direttore Responsabile
Raffaella Zelia Ruscitto