Il rischio carcere per i giornalisti è legge. L'Italia è un Paese "semi-libero"
di Raffaella Zelia Ruscitto – foto di Corrado De Serio
SIENA. Ddl diffamazione “rispedito al mittente”. Ammesso che si sia capito chi è, il mittente.
Il Senato, con uno scrutinio segreto, ha di fatto affossato una legge iniqua, scaturita da una necessità ad personam. Quindi, già malata in partenza e definita “una porcata”. E non è la prima volta che in Italia nascono leggi dalle caratteristiche… “porcine”.
I giornalisti erano pronti a protestare, scioperare: prima una serrata dell’informazione, poi un “oscuramento” dei politici di ogni ordine e grado, tanto per dimostrare il profondo disaccordo con la classe dirigente, in formato bipartisan. Poi tutto è rientrato, nell’attesa di sapere cosa sarebbe uscito dalle urne di Palazzo Madama. Voto segreto, per non far pesare i diktat dei partiti, è stato detto. Ma, di fatto, per evitare che i giornalisti si accanissero su quanti si sarebbero assunti la responsabilità di prevedere, assicurare, infliggere il carcere a un giornalista – e non ad un direttore – per il reato di diffamazione.Un nulla di fatto clamoroso. Forse prevedibile. Forse inevitabile.
123 contrari, 29 favorevoli, 9 gli astenuti. Tutti si reputano, a questo punto, soddisfatti.
Persino la Comunità Europea che aveva fatto sapere al Governo Italiano di non gradire il ddl in fase di approvazione. “Si tratta di una questione di competenza degli stati membri, ma la posizione della Commissione europea sulla libertà di stampa è chiara: siamo sempre a favore” di questo diritto ha detto in conferenza stampa a Bruxelles il commissario europeo per la Giustizia, Viviane Reding. Tutto bene, tutto bello. Peccato che il carcere per i giornalisti, invece, resta. La legge che lo prevede è la numero 47 del 1948. Che non contempla la funzione del giornalista che la vìola. Che sia un semplice corrispondente, collaboratore, capo redattore o direttore responsabile.
Almeno, questa, è uguale per tutti. Senza distinzioni ad personam.
La cosa che, invece, dovrebbe far riflettere è se sia opportuno o meno che – in un Paese democratico evoluto, come si potrebbe definire a torto o a ragione l’Italia – sia giusto o ingiusto che un giornalista condannato per diffamazione a mezzo stampa arrivi a rischiare la galera.
Il rapporto sulla libertà di informazione nel mondo, redatto anche quest’anno da Freedom House riporta l’Italia tra i paesi semi-liberi. Un ben triste risultato, meritato ex aequo con Hong Kong e Guyana. Siamo dunque fuori dalla lista dei Paesi liberi. Una lista lunga, che comprende 66 Stati. E non è il primo anno che ciò accade.
Ci si sbraccia tanto a dichiararsi “paladini” della libera informazione perchè questo, anche ad un orecchio poco avvezzo, suona come una melodia che produce buon governo, coscienza collettiva, libertà in senso lato. Chi non teme la stampa libera? Colui il quale non ha paura, chi ha agito sempre con correttezza, chi non ha nulla da nascondere. Quale potere pulito – ammesso che ce ne sia uno nel mondo – potrà mai barricarsi dietro una censura?!
E, ragionando così, quasi inconsapevolmente, l’attenzione dell’orecchio poco avvezzo scivola verso un mondo di idee, di utopia. E tralascia il piccolo particolare relativo al “chi” ha pronunciato parole così sagge, così nobili. “La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire”, diceva George Orwell, o meglio Eric Arthur Blair, lo scrittore che – nella sua Fattoria degli animali, pluricensurata in una Inghilterra in piena guerra mondiale – fece vestire i panni dei potenti, del governo oligarchico totalitario, ai maiali! Lui sapeva, da giornalista e scrittore di rottura, che dove esiste un potere consolidato non può esistere una stampa libera. Non può esistere una reale libertà, se non una percezione distorta della libertà. Sempre nello stesso libro, illuminante per tanti aspetti, Orwell parla dell’annullamento del diritto di accesso all’istruzione. Gli animali che prima sapevano leggere e che diffondevano la cultura come strumento di propagazione della democrazia, venivano poi soppressi così da lasciare tutti gli altri nell’ignoranza. Nella cieca obbedienza ad un leader.
In Italia da diversi anni si “intacca” la cultura. E l’informazione viene “comprata” o annichilita da continue minacce da parte dei poteri forti. I giovani scendono in piazza per difendere il loro futuro. I giornalisti no. Restano a protestare dalle pagine dei loro fogli, dove questo è concesso dall’editore ma poi… basta. E anche i lettori pare, passino facilmente oltre.
Si assiste ad una guerra fratricida – se così si può dire – in cui i giornalisti schierati politicamente – e dalle spalle coperte – attaccano quelli indipendenti. E viceversa. In un gioco che vede, ogni volta, sconfitta l’intera categoria che perde di credibilità e di autorevolezza.
Là dove quella che un tempo era definita la “linea editoriale” viene pubblicamente trasformata in plateale ed acritica “propaganda politica” senza alcun rispetto della verità e dell’informazione a rimetterci è la faccia di ogni giornalista. Dal più piccolo e “locale” al più grande.
Quella che più volte da queste pagine è stata definita la “deriva dell’etica e della moralità” di un Paese, ha tutti i sintomi di una degenerazione del potere politico ed economico (e le due cose sono spesso riferibili ad una sola persona che controlla un quartiere, una città, una provincia e su fino ai gangli più alti della società), che sta scardinando il nucleo stesso della democrazia alla ricerca dell’esclusivo proprio interesse.
La minaccia del carcere, che passa attraverso la minaccia di querela, o la querela effettiva, non è un fatto secondario.
Non basta stare al sicuro perchè si è fatto bene il proprio lavoro. Una querela è una macchia che un giornalista si porta addosso per tutto il tempo della causa. E’ il pericolo di essere condannato ad una pena pecuniaria che potrebbe ridurlo sul lastrico; è l’angoscia di essere chiamato “imputato” e di districarsi tra tribunali e uffici giudiziari. In tanti ci pensano a lungo prima di scrivere. In tanti, soprattutto tra quelli che non hanno un editore “potente” alle spalle, ci pensano. E magari desistono. E a rimetterci è la collettività.
E chi paga quando un giornalista viene querelato ingiustamente? Una domanda senza risposta, al momento. Sarà per questo che così facilmente si assiste a presentazioni di querele in Procura che poi, dopo anni, vengono definite prive di ogni fondamento.
“Chiunque ha il diritto alla libertà d’opinione e d’espressione; il che implica il diritto di non essere turbato a causa delle sue opinioni e quello di cercare, ricevere e diffondere, senza considerazione di frontiere, le informazioni e le idee attraverso qualunque mezzo di comunicazione” Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – Art.19
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.” Costituzione della Repubblica Italiana – Art. 21
Articoli che troppo spesso nel mondo, in Italia, restano lettera morta. In modo palese a volte, più spesso in modo subdolo, poco percepibile per chi non è da questa parte della scrivania. Stampa libera, accesso alla cultura, così come accesso alle informazioni, sono i tratti di una democrazia sana.
Nel viso deforme della nostra democrazia ci sono le rughe segnate dalla nostra indifferenza collettiva, dalla scarsa attenzione che poniamo, ogni giorno, su quanto ci viene tolto, lentamente ma costantemente, lasciandoci l’illusione di poter protestare davanti ai banconi dei bar, in pizzeria, a casa durante l’infinità di trasmissioni di politica e attualità che spuntano come funghi su ogni rete televisiva. Perchè chi parla di politica poi difficilmente si impegna e la fa…
Eravamo un Paese di poeti, santi, navigatori… oggi ci sono rimasti solo i poeti. O meglio… i chiacchieroni!
PS. E a proposito, tanto per tenere aggiornati i lettori sulle nostre vicende giudiziarie, un segnale positivo di indipendenza c’è e arriva dal tribunale di Siena. Si è conclusa con una vittoria del nostro avvocato Alessandro Massai la causa che il signor Ferdinando Minucci ci aveva intentato. Il giudice Alessandra Verzillo ha, infatti, stabilito che gli articoli “incriminati” non hanno intento diffamatorio. Si tratta di diritto di cronaca. Il giudice ha condannato il presidente della Mens Sana al pagamento delle spese legali.
Se volete contribuire a difendere la libera informazione potete fare una donazione all’associazione RED: www.assored.it.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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