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Micat in vertice: arrivano i "fab four" della musica da camera

di Gianni Basi
SIENA. No, non sono i Tokio Hotel – abbiamo risposto sorridendo a un gruppo di ragazzi che ci chiedevano chi fossero “quelli del Quartetto di Tokio”. Eppure, la domanda, sotto sotto finiva per essere persino pertinente. Già, perchè i quattro “fab four” dell’archetto, in Palazzo Chigi alle 21 di venerdi 20 marzo per il “Micat in Vertice” chigiano, sono conosciuti in tutto il mondo come “i Beatles della musica da camera”.
Nato nel ’69 da quattro studenti provenienti dalla prestigiosa Toho School of Music del maestro Hideo Sato, e poi perfezionatosi negli USA, il Quartetto di Tokio è da oltre trent’anni sulla cresta dell’onda e ottiene ovunque una messe di premi e riconoscimenti di altissimo livello. Tra questi, dopo aver primeggiato al Concorso di Monaco, al Coleman ed al Young Concert Artists, è stato insignito del Best Chamber Music Recording of the Year, del Grand Prix du Disque di Montreux e di ben sette nomination al Grammy. Incide in esclusiva con la rinomata Deutsche Grammophone e tiene regolari master class estivi alla Yale School of Music. Fra le registrazioni più significative, l’opera completa per archi di Brahms e i cicli dei quartetti di Beethoven Schubert e Bartok. Ma i quattro eccellenti strumentisti aprono di frequente anche ai nuovi artisti, ed inaugurano sempre le prime di ogni opera inedita nei luoghi d’origine dei più vari compositori.
Dal ‘69 in poi, tre gli avvicendamenti dalla formazione originaria: dapprima il violinista Mikhail Kopelman, poi gli attuali Clive Greensmith al cello e Martin Beaver al primo violino. Intoccabili negli anni sono rimasti il secondo violino Kikuel Ikeda e la viola di Kazuhide Isomura. Una loro simpatica caratteristica è non solo l’essere andati sempre d’accordo musicalmente ma, alla Qui Quo Qua, il sapersi indovinare i pensieri più confidenziali e riservati. Quel “pensi anche tu quello che penso io” che li unisce e rafforza nello spirito e soprattutto nell’amicizia. A detta degli estimatori del classico, ascoltarli, come adesso per i più fortunati a Palazzo Chigi (dove è possibile trovare i biglietti disponibili nel pomeriggio di giovedì, e venerdi un’ora prima del concerto), è “un’occasione veramente preziosa”.
Nella serata chigiana eseguiranno brani di grande ispirazione e ricchezza inventiva, i primi due di Haydn ed il terzo di Brahms. E si avvarranno di violini viola e violoncello particolari: quattro Stradivari d’eccezione che furono tutti suonati da Niccolò Paganini, e a lui appartenuti. Un tuffo nel passato quindi anche strumentale, che sarà arricchito in apertura dalla grazia del “Quartetto in mi bemolle maggiore op.76 n.6” e dal maestoso “Kaiserquartett in do maggiore op. 76 n.3”, entrambi di Franz Joseph Haydn. La chiusura sarà poi affidata al maturo e galante “Quartetto in si bemolle maggiore op.67 n.3” di Johannes Brahms.
All’origine, questa brillante formazione strumentale a quattro si limitava ai soli violini. Più che quartetti venivano definiti “divertimenti”, e spesso ad esclusivo piacere delle corti. Haydn ne introdusse successivamente sonorità tali da richiamare un orecchiabile stile sinfonico, e li rappresentò con successo al pubblico dei teatri anche in forma orchestrale avvicinando così il classico alla gente comune. Beethoven stesso fu ispirato proprio dalla bellezza del Quartetto n.6 (il primo all’ascolto in Palazzo Chigi), tanto da riportarne l’aria nell’ouverture della sua “Sinfonia Eroica”. Il Kaiserquartett, o “dell’Imperatore”, è sicuramente quello meglio conosciuto. Scritto come il precedente in età non più giovanissima, venne dedicato da Haydn all’imperatore Francesco Giuseppe e fu tra i preferiti dal musicista austriaco. Egli intendeva, nel primo movimento, coinvolgere ampiamente il gusto popolare; nel secondo, con solennità, fare omaggio all’imperatore con un’aria che fosse sempre riconoscibile, amata e imperitura. E fu così che questa musica intrigante, pomposa e regale, divenne dapprima l’inno imperiale degli Asburgo e poi, dopo il 1918, assurse ad inno ufficiale della Germania. Sopravvisse a guerre e divisioni e il suo celebre verso “Deutschland über alles” è tutt’oggi cantato a squarciagola anche dai fantasiosi Prinzen, il più noto coro slow-rock tedesco.
Di Brahms, anch’egli fertile compositore di un numero considerevole di quartetti per archi, Schumann parlava entusiasta e lo descriveva come il fautore “della più alta espressione musicale dell’epoca”. I quattro tempi del suo “si bemolle maggiore op.67 n.3” scivolano dalla danza iniziale all’andante in forma di Lied, quindi diluiscono nel cantabile e infine introducono i fraseggi dei violini in una serie di variazioni in dialogo festoso con viola e violoncello. Una delizia di intrecci. Scritto nel 1776, il quartetto venne inizialmente eseguito in versione per pianoforte dallo stesso autore, e seppe esprimere comunque quella felicità creativa che poi, con gli archi, è diventata colore e fioritura di suoni. Strano che proprio sul finire di quegli anni un Brahms in formissima stesse accantonando, e per lungo tempo, la vena quartettistica. Quando nell’81 riprese i quartetti fu persino tenero il modo in cui presentò i suoi nuovi brani all’acquirente principe Wallerstein. Citiamo il passo di una sua lettera: “Prendo la libertà di offrire a Vostra Altezza Serenissima i miei più recenti lavori per due violini viola e violoncello, al prezzo di sei ducati. Sono scritti in modo fiammante e davvero del tutto nuovo. Dopo anni che non ne avevo più composti, chiedo ora la Vostra benevolenza per accettarli”. Pensate, tanta accortezza e timidezza in un Brahms che era già Brahms. Però, al contrario di oggi che, per ogni autore, proporsi è una lotta, in quei tempi c’era per i compositori maggiore attenzione anche nel leggere una piccola lettera, e disponibilità e curiosità ad ascoltarli. Il già navigato Brahms, che temendo di essere stato dimenticato esprime decisione nel sostenere la bontà delle sue composizioni, definendole fiammanti, è un esempio per chi, fra i giovani che s’impegnano nella musica, debba imparare a credere in se stesso ed a farlo con tenacia, mai al mondo sminuendo per stupidi pudori la validità di ciò che propone. Nel ‘69, in un Giappone ancora ferito dalla guerra e lontano dal grande classico, vi credettero quattro ragazzi testardi, dandosi il nome semplice e nostalgico di “Quartetto di Tokio”. Inossidabili e fiammanti anche loro, oggi a guardarsi l’un l’altro tra occhi a mandorla e non, ma forti di una musica comune di cui sono innamorati e a cui tendono onorevole cuore e onorevoli archetti, fra un inchino e un applauso.
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