di Lorenzo Pini
SIENA. Fin dalla metà del secolo XIII sono attivi in Toscana diversi imitatori di quella che è stata la prima espressione poetica in un volgare italiano, ovvero la poesia siciliana, nata alla corte di Federico II nei primi anni del Duecento. Gruppi di rimatori in stile lentiniano furono presenti a Firenze, Pisa, Prato (che costituiva il maggior centro d’irradiazione del potere Svevo in Toscana), mentre a Lucca toccò il privilegio di crescere Bonagiunta Orbicciani, ritenuto il primo maestro, il trapiantatore della maniera siciliana in Toscana. Anche ad Arezzo risulta attivo un manipolo di poeti, oscurati dall’ingombrante figura di Guittone, le cui rime, diffondendosi ben oltre l’ambito municipale, segnarono uno spartiacque con quelle della tradizione sicilianeggiante.
Ma se in gran parte del territorio toscano la poesia d’amore ha modo di svilupparsi (e poi di “rinnovarsi” grazie alla nascita dello Stilnovismo) per tutta la seconda metà del Duecento, diversamente a Siena questi anni vedono il deciso affermarsi del filone comico-realistico, che relega ai margini l’attività creativa dei poeti amanti la lirica di stampo cortese e non solo.
Dante, nel De Vulgari Eloquentia, non risparmia critiche a tale minoranza di poeti-emuli dei Siciliani, attivi intorno alla metà del secolo, stigmatizzando in Mino Mocati il “rozzore” dei senesi della generazione precedente alla sua e, quindi, a quella di Cecco. La sola canzone pervenutaci di Mocati, “Non pensai che distretto”, parzialmente ispirata a quella di Raimbaut de Vaqueiras, “Ja non cugei vezer”, è composta di stanze collegate secondo lo schema delle provenzali coblas capfinidas e manca di congedo: sono probabilmente questi i motivi (insieme allo stile e al metro) che giustificano la denuncia dantesca. La tradizione attesta un unico ramo Mocati in Siena, cui capo ci sarebbe un certo “Bartolomeo Machata”, nome che ricorre in un documento datato 12 luglio 1254 (pubblicato da Ficker) e che potrebbe perciò riguardare il nostro poeta.
Quindi, nonostante di Mocati non conosciamo esattamente la data di nascita, essa può essere collocata, come per Guittone, Bonagiunta Orbicciani e Brunetto Latini, dei quali fu contemporaneo, intorno al 1220.
Con Bartolomeo Mocati (lo scarto fra i nomi andrà spiegato con la corruzione del diminutivo Meo) appartennero comunque a questa fase della lirica senese altri due poeti: Folcacchiero de’ Folcacchieri e Caccia, autori di una canzone ciascuno, rispettivamente “Tutto lo mondo vive sanza guerra” e “Per forza di piacer lontana cosa”. Si tratta di canzoni di argomento amoroso, che il codice Vaticano 3793 ci conserva in sequenza. Per quanto la potenza di Amore sia per tutti al centro dei loro componimenti, diverso è invece il punto di vista attraverso il quale i tre senesi inquadrano il fenomeno: se da una parte Mocati esprime la sua totale dedizione al servizio amoroso, quello di Folcacchiero appare come un disperato sfogo contro Amore che lo ha reso irriconoscibile e disperato, mentre Caccia si concentra maggiormente sulla natura dell’innamoramento.
Se di Caccia non si hanno particolari notizie biografiche, diverso è il discorso per Folcacchiero: colui che “echeggiar facea le Ausonie contrade con dolce metro la nascente italica nostra favella”. Così scriveva Luigi De Angelis, professore all’Università di Siena nel 1810, a proposito del Folcacchieri, nel suo “Discorso storico sull’Università di Siena”. Il poeta è infatti considerato il più antico rimatore senese in volgare ed uno dei primi in Toscana, ma per alcuni studiosi rappresenta addirittura la prima espressione di canto in volgare in assoluto, precedente di pochissimo il “gran coro” dei primi poeti italiani. Col suo nome (insieme a quello di Cielo d’Alcamo) De Sanctis apriva la classica Storia della Letteratura.
Sul periodo esatto in cui visse il poeta ci possono aiutare alcuni documenti dell’Archivio di Stato di Siena: ad esempio, nel 1232, “Folchalcherius Ranerii Fochalcherii” è sorpreso fuori casa di notte e viene condannato.
Nel 1237 è condotto davanti al pretore perché disturba la quiete notturna, mentre nel 1247, ormai cresciuto e fatto cavaliere, Folcacchiero marcia con l’esercito al servizio dell’imperatore contro Perugia.
Nel 1251 va, in veste di ambasciatore al conte Aldobrandino, presso Belforte e Radicondoli e l’anno successivo gli viene risarcito un cavallo che aveva perduto combattendo contro i fiorentini.
Da questi pochi cenni è possibile ricostruire la data di nascita del poeta e soprattutto smentire chi lo elegge primo esponente della poesia volgare, facendolo nascere prima del 1200 (anno 1250 secondo Luigi de Angelis, che partendo dal verso del senese “Tutto lo mondo vive sanza guerra”, trovò la data di composizione della canzone nel 1177, quando a Venezia Federico I imperatore firmava la pace con Alessandro III papa e il mondo godeva di un periodo di tranquillità).
Se intorno al 1235 Folcacchiero era sorpreso più volte a fare vita godereccia, certo doveva essere ancora molto giovane, considerando anche l’età dei suoi fratelli e di suo padre, come sostengono gli studi di Benedetto Buzzelli.
Il poeta dunque vide la luce nel secondo decennio del Duecento e fu sì tra i primi rimatori italiani, ma in seconda fila. L’unico suo componimento che i codici ci hanno tramandato mostra infatti una lingua e una struttura già consolidate e non certo al primo passo.
L’egemonia della poesia comico-realistica di Cecco, Folgore da San Gimignano, Muscia e Iacopo de’ Tolomei non lascia spazio a Siena neanche a seguaci della lezione di Guittone, che pure aveva trovato fortuna nelle altre realtà cittadine. D’altra parte la pratica del genere comico-realistico prende vita da una tradizione tabernaria assai antica e radicata in questo territorio, la quale fin dai tempi del Medioevo latino suggeriva temi vitalistici (cui si rifacevano per esempio gli antichi carmi goliardici) quali il mondo alla rovescia, la Fortuna rappresentata come ruota, l’onnipotenza del denaro, la condanna dell’avarizia e il motivo bacchico e di cui è l’emblema il noto inizio del sonetto angiolieresco: “Tre cose solamente mi so’ ‘n grado, / le quali posso ben ben fornire: / ciò è la donna, la taverna e ‘l dado”.
Adattando quei modelli al volgare di sì, Rustico prima e poi Cecco e i suoi sodali forgiarono una lingua di tono basso, utilizzando un repertorio quotidiano e talora osceno; le situazioni tipiche della lirica cortese, in primo luogo quella del duro servizio amoroso, vengono così stravolte, anche considerando che i rappresentanti senesi della lirica amorosa costituivano un gruppo davvero esiguo.
SIENA. Fin dalla metà del secolo XIII sono attivi in Toscana diversi imitatori di quella che è stata la prima espressione poetica in un volgare italiano, ovvero la poesia siciliana, nata alla corte di Federico II nei primi anni del Duecento. Gruppi di rimatori in stile lentiniano furono presenti a Firenze, Pisa, Prato (che costituiva il maggior centro d’irradiazione del potere Svevo in Toscana), mentre a Lucca toccò il privilegio di crescere Bonagiunta Orbicciani, ritenuto il primo maestro, il trapiantatore della maniera siciliana in Toscana. Anche ad Arezzo risulta attivo un manipolo di poeti, oscurati dall’ingombrante figura di Guittone, le cui rime, diffondendosi ben oltre l’ambito municipale, segnarono uno spartiacque con quelle della tradizione sicilianeggiante.
Ma se in gran parte del territorio toscano la poesia d’amore ha modo di svilupparsi (e poi di “rinnovarsi” grazie alla nascita dello Stilnovismo) per tutta la seconda metà del Duecento, diversamente a Siena questi anni vedono il deciso affermarsi del filone comico-realistico, che relega ai margini l’attività creativa dei poeti amanti la lirica di stampo cortese e non solo.
Dante, nel De Vulgari Eloquentia, non risparmia critiche a tale minoranza di poeti-emuli dei Siciliani, attivi intorno alla metà del secolo, stigmatizzando in Mino Mocati il “rozzore” dei senesi della generazione precedente alla sua e, quindi, a quella di Cecco. La sola canzone pervenutaci di Mocati, “Non pensai che distretto”, parzialmente ispirata a quella di Raimbaut de Vaqueiras, “Ja non cugei vezer”, è composta di stanze collegate secondo lo schema delle provenzali coblas capfinidas e manca di congedo: sono probabilmente questi i motivi (insieme allo stile e al metro) che giustificano la denuncia dantesca. La tradizione attesta un unico ramo Mocati in Siena, cui capo ci sarebbe un certo “Bartolomeo Machata”, nome che ricorre in un documento datato 12 luglio 1254 (pubblicato da Ficker) e che potrebbe perciò riguardare il nostro poeta.
Quindi, nonostante di Mocati non conosciamo esattamente la data di nascita, essa può essere collocata, come per Guittone, Bonagiunta Orbicciani e Brunetto Latini, dei quali fu contemporaneo, intorno al 1220.
Con Bartolomeo Mocati (lo scarto fra i nomi andrà spiegato con la corruzione del diminutivo Meo) appartennero comunque a questa fase della lirica senese altri due poeti: Folcacchiero de’ Folcacchieri e Caccia, autori di una canzone ciascuno, rispettivamente “Tutto lo mondo vive sanza guerra” e “Per forza di piacer lontana cosa”. Si tratta di canzoni di argomento amoroso, che il codice Vaticano 3793 ci conserva in sequenza. Per quanto la potenza di Amore sia per tutti al centro dei loro componimenti, diverso è invece il punto di vista attraverso il quale i tre senesi inquadrano il fenomeno: se da una parte Mocati esprime la sua totale dedizione al servizio amoroso, quello di Folcacchiero appare come un disperato sfogo contro Amore che lo ha reso irriconoscibile e disperato, mentre Caccia si concentra maggiormente sulla natura dell’innamoramento.
Se di Caccia non si hanno particolari notizie biografiche, diverso è il discorso per Folcacchiero: colui che “echeggiar facea le Ausonie contrade con dolce metro la nascente italica nostra favella”. Così scriveva Luigi De Angelis, professore all’Università di Siena nel 1810, a proposito del Folcacchieri, nel suo “Discorso storico sull’Università di Siena”. Il poeta è infatti considerato il più antico rimatore senese in volgare ed uno dei primi in Toscana, ma per alcuni studiosi rappresenta addirittura la prima espressione di canto in volgare in assoluto, precedente di pochissimo il “gran coro” dei primi poeti italiani. Col suo nome (insieme a quello di Cielo d’Alcamo) De Sanctis apriva la classica Storia della Letteratura.
Sul periodo esatto in cui visse il poeta ci possono aiutare alcuni documenti dell’Archivio di Stato di Siena: ad esempio, nel 1232, “Folchalcherius Ranerii Fochalcherii” è sorpreso fuori casa di notte e viene condannato.
Nel 1237 è condotto davanti al pretore perché disturba la quiete notturna, mentre nel 1247, ormai cresciuto e fatto cavaliere, Folcacchiero marcia con l’esercito al servizio dell’imperatore contro Perugia.
Nel 1251 va, in veste di ambasciatore al conte Aldobrandino, presso Belforte e Radicondoli e l’anno successivo gli viene risarcito un cavallo che aveva perduto combattendo contro i fiorentini.
Da questi pochi cenni è possibile ricostruire la data di nascita del poeta e soprattutto smentire chi lo elegge primo esponente della poesia volgare, facendolo nascere prima del 1200 (anno 1250 secondo Luigi de Angelis, che partendo dal verso del senese “Tutto lo mondo vive sanza guerra”, trovò la data di composizione della canzone nel 1177, quando a Venezia Federico I imperatore firmava la pace con Alessandro III papa e il mondo godeva di un periodo di tranquillità).
Se intorno al 1235 Folcacchiero era sorpreso più volte a fare vita godereccia, certo doveva essere ancora molto giovane, considerando anche l’età dei suoi fratelli e di suo padre, come sostengono gli studi di Benedetto Buzzelli.
Il poeta dunque vide la luce nel secondo decennio del Duecento e fu sì tra i primi rimatori italiani, ma in seconda fila. L’unico suo componimento che i codici ci hanno tramandato mostra infatti una lingua e una struttura già consolidate e non certo al primo passo.
L’egemonia della poesia comico-realistica di Cecco, Folgore da San Gimignano, Muscia e Iacopo de’ Tolomei non lascia spazio a Siena neanche a seguaci della lezione di Guittone, che pure aveva trovato fortuna nelle altre realtà cittadine. D’altra parte la pratica del genere comico-realistico prende vita da una tradizione tabernaria assai antica e radicata in questo territorio, la quale fin dai tempi del Medioevo latino suggeriva temi vitalistici (cui si rifacevano per esempio gli antichi carmi goliardici) quali il mondo alla rovescia, la Fortuna rappresentata come ruota, l’onnipotenza del denaro, la condanna dell’avarizia e il motivo bacchico e di cui è l’emblema il noto inizio del sonetto angiolieresco: “Tre cose solamente mi so’ ‘n grado, / le quali posso ben ben fornire: / ciò è la donna, la taverna e ‘l dado”.
Adattando quei modelli al volgare di sì, Rustico prima e poi Cecco e i suoi sodali forgiarono una lingua di tono basso, utilizzando un repertorio quotidiano e talora osceno; le situazioni tipiche della lirica cortese, in primo luogo quella del duro servizio amoroso, vengono così stravolte, anche considerando che i rappresentanti senesi della lirica amorosa costituivano un gruppo davvero esiguo.