di Gianni Basi
SIENA. Ultimo appuntamento di febbraio per il Micat in Vertice chigiano. Ed anche in questa occasione in abbonamento promozionale per giovani e studenti. Alle ore 21 di venerdi 26 l’elegante Richard Goode, newyorkese del Bronx ed uno dei massimi esecutori del classico puro, suonerà per la prima volta a Siena.
Capace come pochi di emozionare col suo particolare estro creativo – tanto da aver fatto letteralmente rivivere Mozart nei dischi realizzati con l’Orpheus Chamber Orchestra – è inoltre il primo pianista americano ad avere inciso l’integrale dei Concerti e delle Sonate di Beethoven. Allievo in gioventù di talenti pianistici come Nadia Reisenberg e Rudolf Serkin, nella sua lunga carriera può vantare un numero vastissimo di premi e riconoscimenti fra cui la vittoria del Clara Haskil Competition nel ’73 e dell’Avery Fisher Prize nell’80. Ha poi conseguito il Young Concert Artists, il Grammy Awards e una serie di lusinghiere attestazioni come il Best of the Year a cadenze semi-annuali e, ultimamente, il Best of the Month da parte della rivista Stereo Rewiew per alcune registrazioni di Chopin definite “assolutamente magiche”. Mettersi al piano, per un Goode impegnatissimo nelle direzioni artistiche in varie scuole e rassegne d’oltreoceano come i Marlboro Festival in Vermont con Mitsuko Uchida, sembrerebbe un toccasana riposante. Invece è un gran lavoro anche quello, quanto meno a livello emozionale: suonare dividendosi tra gioia e rito ascetico è una faticaccia dello spirito. Ma non c’è musicista che ne farebbe mai a meno. La sua cura volta alla ricerca della perfezione può essere accostata solo a quella di un accordatore, figura spesso dimenticata ma fondamentale a che il suono in tastiera sia totalmente pulito, cosa tutt’altro che facile. Goode si compenetra così tanto sui tasti e su alchimie certosine da produrre i suoni migliori e farci ricordare un altro grande del pianoforte, Krystian Zimerman, noto per la sua gratitudine verso l’amato strumento da additarlo al pubblico, alla fine dei concerti, celebrandolo come vero protagonista. Un pianoforte che poi, guidando un camion personalmente, si trasporta da un concerto all’altro. Sono parecchi i pianisti che suonano soltanto sul loro piano, Pollini è tra questi, e crediamo lo sia anche Goode poiché non può non far parte di quella schiera di inguaribili gelosi della propria tastiera, amante e amica, appendice insostituibile, coperta di Linus, pianoforte di Schroeder…
La serata chigiana comincerà con un brano bitonale, un sol maggiore-la minore in cui si snoda la “Pavane and Galliard” di William Byrd, probabilmente il maggiore rappresentante del rinascimento inglese. In origine, la forma ispano-veneta della “pavana” fu adottata come lenta danza di cerimonia, andamento grave e serioso. In fusione con la salterellante e franco-italiana “gagliarda”, allegrotta al punto di comprendere anche piroette e il sollevamento delle dame, la ritmica del ballo cortese in voga nella Padova del ‘500 si ravvivò e portò alla nascita della “suite”.
Di questo nuovo genere musicale si avvalse ampiamente Bach e, successivamente, al tema primigenio di quell’antico slow cadenzato attinsero con intelligenza e propri tocchi creativi sia Ravel che Faurè. La molto nota “Partita n. 6 in mi minore BWV 830” di Johann Sebastian, fra i cavalli di battaglia di mostri pianistici come Glenn Gould e András Schiff, sarà nel secondo momento del concerto il naturale seguito del percorso in tastiera di Richard Goode, loro collega eletto e come loro celebrato in ogni parte del mondo. Questa “Partita”, che è praticamente una “suite”, è strutturata nella tipica successione bachiana che va dal preambolo alla giga e, nello svolgersi, si arricchisce via via di polifonie cembalistiche in passo di danza che Bach farcisce di fioriture, senso di improvvisazione, galanterie (deliziose per le orecchie) sparse sul finale in prossimità della sarabanda. Chi altri più di Bach, nel suo suonare indifferentemente violino clavicembalo liuto organo viola e violoncello e, se li avesse avuti sottomano, anche stratocaster batteria e sintetizzatori Korg, saprebbe rendere vivo ed entusiasmante persino un mortorio come Sanremo?… Ma un segreto c’è: in casa Bach suonavano tutti. Ad esempio, raccolta nell’almanacco didattico dedicato alla seconda moglie Anna Magdalena (per inciso da questa nacquero tredici figli; da Barbara Maria, la prima compagna, sette: Bach aveva come distrarsi dalla musica, anzi sapeva che erano l’amore coniugale assieme a quello filiale i veri filtri magici per fare ogni volta una melodia più bella e per aver ancor più gioia di vivere), si dice che a questa “Partita” e ad altre partiture vi lavorò, tra padre e figli, un po’ tutta la famiglia. Cosa dolcissima, no? Come dire che, quando Beethoven dichiarò, ammirato, che il significato del nome Bach (“ruscello”) avrebbe in tutti i sensi (immenso patrimonio artistico, famiglia-tribù) dovuto assumere l’accezione ben più vasta di “oceano”, abbia proprio azzeccato la più sacrosanta delle verità.
Per i brani di Chopin, che seguiranno, e cioè quattro “Mazurche” e una “Polonaise”, non c’è pianista che non sogni di avere sotto le dita lo storico pianoforte francese Pleyel, adorato dall’autore polacco. Così come, in tema di preferenze, sono indubbiamente le “polacche” e le “mazurche” i generi più amati da Chopin. Pare che sin da piccolo suonasse solo le prime e che anche negli ultimi giorni di vita non avesse in mente che le seconde. Nelle “mazurche” egli esprimeva l’anima contadina del suo Paese, nelle “polacche” decantava la fierezza e lo slancio patriottico di quel popolo. Le quattro brevi e intime “Mazurche” che Richard Goode eseguirà, sono la n.2 dell’opera 24, la due e la tre dell’op.41 e la terza dell’op.50. La successiva “Polonaise-Fantasie” in la bemolle maggiore op.61 è però molto differente dalle altre, e soprattutto per il suo tessuto armonico ampio ed aperto. Di sicuro si tratta di una delle musiche più belle di Chopin e viene descritta ad immagine fedele della sognante tenerezza in cui è racchiuso il suo mondo particolare e a cui il pianoforte sa rendere la giusta voce. Il concerto dei Rozzi, nel suo epilogo, giunge quindi alla meravigliosa “Sonata in si bemolle maggiore D 960” di Schubert. E’ tra le sue ultime composizioni, ben lontana dagli impeti della terza Sinfonia in re maggiore ad esempio ma traboccante come le altre (celebre “Incompiuta” compresa) di espressività e sentimento. Scritta nel 1828, precedette di poco la sua scomparsa quando, umile com’era, andava dicendo in giro di sperare “di riuscire ancora a fare qualcosa di valido” aggiungendo poi, riferendosi all’appena defunto Beethoven, suo mito: “ma come potrò fare qualcosa di grande dopo di lui?”. E invece vi riuscì, dandosi forza e vincendo ogni incipiente fragilità nel tracciare, in questa “Sonata” epica, una sorta di profilo indelebile del suo troppo breve arco di vita. Lo fece con animo nobile e sofferto ma con lo stesso piglio di precisione meticolosa in ogni ritardare o accelerare delle note, insomma pignolo in ogni dettaglio come sempre aveva fatto. E’ la sindrome del musicista supremo: mai contento, mai del tutto consapevole dell’opera d’arte creata, in attesa che sia il giudizio degli altri a decretarla capolavoro. Uno Schubert pertanto alle prese con mille dubbi e in bilico fra luci ed ombre gonfie di interiorità, in questa “Sonata” meditativa. Dove, però, sa perfino anche concedersi il brio festoso dello “scherzo” pur se lo sfuma, subito dopo, in un “rondò” velato di (bellissima) malinconia.
Per il pubblico, un concerto intenso, da seguire con ammirazione brano per brano. Per Richard Goode, che la grande musica, beato lui, se la suona anche in casa assieme alla moglie, la violinista Marcia Weinfeld, due ore piene chino su un pianoforte narrante storie e sensazioni tutt’altro che antiche, anzi con dentro qualcosa di sempre, ed anche di sé.
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SIENA. Ultimo appuntamento di febbraio per il Micat in Vertice chigiano. Ed anche in questa occasione in abbonamento promozionale per giovani e studenti. Alle ore 21 di venerdi 26 l’elegante Richard Goode, newyorkese del Bronx ed uno dei massimi esecutori del classico puro, suonerà per la prima volta a Siena.
Capace come pochi di emozionare col suo particolare estro creativo – tanto da aver fatto letteralmente rivivere Mozart nei dischi realizzati con l’Orpheus Chamber Orchestra – è inoltre il primo pianista americano ad avere inciso l’integrale dei Concerti e delle Sonate di Beethoven. Allievo in gioventù di talenti pianistici come Nadia Reisenberg e Rudolf Serkin, nella sua lunga carriera può vantare un numero vastissimo di premi e riconoscimenti fra cui la vittoria del Clara Haskil Competition nel ’73 e dell’Avery Fisher Prize nell’80. Ha poi conseguito il Young Concert Artists, il Grammy Awards e una serie di lusinghiere attestazioni come il Best of the Year a cadenze semi-annuali e, ultimamente, il Best of the Month da parte della rivista Stereo Rewiew per alcune registrazioni di Chopin definite “assolutamente magiche”. Mettersi al piano, per un Goode impegnatissimo nelle direzioni artistiche in varie scuole e rassegne d’oltreoceano come i Marlboro Festival in Vermont con Mitsuko Uchida, sembrerebbe un toccasana riposante. Invece è un gran lavoro anche quello, quanto meno a livello emozionale: suonare dividendosi tra gioia e rito ascetico è una faticaccia dello spirito. Ma non c’è musicista che ne farebbe mai a meno. La sua cura volta alla ricerca della perfezione può essere accostata solo a quella di un accordatore, figura spesso dimenticata ma fondamentale a che il suono in tastiera sia totalmente pulito, cosa tutt’altro che facile. Goode si compenetra così tanto sui tasti e su alchimie certosine da produrre i suoni migliori e farci ricordare un altro grande del pianoforte, Krystian Zimerman, noto per la sua gratitudine verso l’amato strumento da additarlo al pubblico, alla fine dei concerti, celebrandolo come vero protagonista. Un pianoforte che poi, guidando un camion personalmente, si trasporta da un concerto all’altro. Sono parecchi i pianisti che suonano soltanto sul loro piano, Pollini è tra questi, e crediamo lo sia anche Goode poiché non può non far parte di quella schiera di inguaribili gelosi della propria tastiera, amante e amica, appendice insostituibile, coperta di Linus, pianoforte di Schroeder…
La serata chigiana comincerà con un brano bitonale, un sol maggiore-la minore in cui si snoda la “Pavane and Galliard” di William Byrd, probabilmente il maggiore rappresentante del rinascimento inglese. In origine, la forma ispano-veneta della “pavana” fu adottata come lenta danza di cerimonia, andamento grave e serioso. In fusione con la salterellante e franco-italiana “gagliarda”, allegrotta al punto di comprendere anche piroette e il sollevamento delle dame, la ritmica del ballo cortese in voga nella Padova del ‘500 si ravvivò e portò alla nascita della “suite”.
Di questo nuovo genere musicale si avvalse ampiamente Bach e, successivamente, al tema primigenio di quell’antico slow cadenzato attinsero con intelligenza e propri tocchi creativi sia Ravel che Faurè. La molto nota “Partita n. 6 in mi minore BWV 830” di Johann Sebastian, fra i cavalli di battaglia di mostri pianistici come Glenn Gould e András Schiff, sarà nel secondo momento del concerto il naturale seguito del percorso in tastiera di Richard Goode, loro collega eletto e come loro celebrato in ogni parte del mondo. Questa “Partita”, che è praticamente una “suite”, è strutturata nella tipica successione bachiana che va dal preambolo alla giga e, nello svolgersi, si arricchisce via via di polifonie cembalistiche in passo di danza che Bach farcisce di fioriture, senso di improvvisazione, galanterie (deliziose per le orecchie) sparse sul finale in prossimità della sarabanda. Chi altri più di Bach, nel suo suonare indifferentemente violino clavicembalo liuto organo viola e violoncello e, se li avesse avuti sottomano, anche stratocaster batteria e sintetizzatori Korg, saprebbe rendere vivo ed entusiasmante persino un mortorio come Sanremo?… Ma un segreto c’è: in casa Bach suonavano tutti. Ad esempio, raccolta nell’almanacco didattico dedicato alla seconda moglie Anna Magdalena (per inciso da questa nacquero tredici figli; da Barbara Maria, la prima compagna, sette: Bach aveva come distrarsi dalla musica, anzi sapeva che erano l’amore coniugale assieme a quello filiale i veri filtri magici per fare ogni volta una melodia più bella e per aver ancor più gioia di vivere), si dice che a questa “Partita” e ad altre partiture vi lavorò, tra padre e figli, un po’ tutta la famiglia. Cosa dolcissima, no? Come dire che, quando Beethoven dichiarò, ammirato, che il significato del nome Bach (“ruscello”) avrebbe in tutti i sensi (immenso patrimonio artistico, famiglia-tribù) dovuto assumere l’accezione ben più vasta di “oceano”, abbia proprio azzeccato la più sacrosanta delle verità.
Per i brani di Chopin, che seguiranno, e cioè quattro “Mazurche” e una “Polonaise”, non c’è pianista che non sogni di avere sotto le dita lo storico pianoforte francese Pleyel, adorato dall’autore polacco. Così come, in tema di preferenze, sono indubbiamente le “polacche” e le “mazurche” i generi più amati da Chopin. Pare che sin da piccolo suonasse solo le prime e che anche negli ultimi giorni di vita non avesse in mente che le seconde. Nelle “mazurche” egli esprimeva l’anima contadina del suo Paese, nelle “polacche” decantava la fierezza e lo slancio patriottico di quel popolo. Le quattro brevi e intime “Mazurche” che Richard Goode eseguirà, sono la n.2 dell’opera 24, la due e la tre dell’op.41 e la terza dell’op.50. La successiva “Polonaise-Fantasie” in la bemolle maggiore op.61 è però molto differente dalle altre, e soprattutto per il suo tessuto armonico ampio ed aperto. Di sicuro si tratta di una delle musiche più belle di Chopin e viene descritta ad immagine fedele della sognante tenerezza in cui è racchiuso il suo mondo particolare e a cui il pianoforte sa rendere la giusta voce. Il concerto dei Rozzi, nel suo epilogo, giunge quindi alla meravigliosa “Sonata in si bemolle maggiore D 960” di Schubert. E’ tra le sue ultime composizioni, ben lontana dagli impeti della terza Sinfonia in re maggiore ad esempio ma traboccante come le altre (celebre “Incompiuta” compresa) di espressività e sentimento. Scritta nel 1828, precedette di poco la sua scomparsa quando, umile com’era, andava dicendo in giro di sperare “di riuscire ancora a fare qualcosa di valido” aggiungendo poi, riferendosi all’appena defunto Beethoven, suo mito: “ma come potrò fare qualcosa di grande dopo di lui?”. E invece vi riuscì, dandosi forza e vincendo ogni incipiente fragilità nel tracciare, in questa “Sonata” epica, una sorta di profilo indelebile del suo troppo breve arco di vita. Lo fece con animo nobile e sofferto ma con lo stesso piglio di precisione meticolosa in ogni ritardare o accelerare delle note, insomma pignolo in ogni dettaglio come sempre aveva fatto. E’ la sindrome del musicista supremo: mai contento, mai del tutto consapevole dell’opera d’arte creata, in attesa che sia il giudizio degli altri a decretarla capolavoro. Uno Schubert pertanto alle prese con mille dubbi e in bilico fra luci ed ombre gonfie di interiorità, in questa “Sonata” meditativa. Dove, però, sa perfino anche concedersi il brio festoso dello “scherzo” pur se lo sfuma, subito dopo, in un “rondò” velato di (bellissima) malinconia.
Per il pubblico, un concerto intenso, da seguire con ammirazione brano per brano. Per Richard Goode, che la grande musica, beato lui, se la suona anche in casa assieme alla moglie, la violinista Marcia Weinfeld, due ore piene chino su un pianoforte narrante storie e sensazioni tutt’altro che antiche, anzi con dentro qualcosa di sempre, ed anche di sé.
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