
CHIUSI. Luca Zingaretti è interprete ma anche curatore della regia e dell’adattamento drammaturgico della “Sirena”, tratto dal racconto Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in scena venerdì (5 marzo), alle 21,00 al Mascagni di Chiusi.
Legge da solo, accompagnato dalle musiche del maestro Germano Mazzocchetti e dalla sua fisarmonica, e dopo i primi minuti già non si pensa più a chi c’è sul palco: si rimane intrappolati nel racconto. La storia scorre veloce, fluida, senza intoppi: ci si trova a passare dalla Torino autunnale del 1938 alla Sicilia di cinquant’anni prima: calda, accogliente. Sembra quasi di sentire i profumi di quella terra, i sapori, di vedere i meravigliosi panorami pur non essendoci mai stati. La fisarmonica interrompe il racconto e rende tutto ancora più vero, la musica ci porta definitivamente nel racconto. La storia vede due uomini che si incontrano nella città piemontese, a entrambi estranea. Paolo Corbèra è nato a Palermo, giovane laureato in Giurisprudenza, lavora come redattore della “Stampa”. Rosario La Ciura è nato ad Aci Castello, ha settantacinque anni, ed oltre ad essere senatore è il più illustre ellenista del tempo, autore di una stimata opera di alta erudizione e di viva poesia. Il primo risiede in un modesto alloggio di via Peyron e, deluso da avventure amorose di poco valore, si trova "in piena crisi di misantropia". Il secondo vive in "un vecchio palazzo malandato" di via Bertola ed è "infagottato in un cappotto vecchio con colletto di un astrakan spelacchiato", legge riviste straniere, fuma sigari toscani e sputa spesso.
I due sconosciuti si incontrano in un caffé di via Po ("una specie di Ade" o "un adattissimo Limbo") e, a poco a poco, entrano in confidenza. Tra riflessioni erudite, dialoghi sagaci, battute cinicamente ironiche, i due trascorrono il tempo conversando di letteratura, di antichità, di vecchie e nuove abitudini di vita. In un immaginario viaggio, geografico e temporale tra il Nord e il Sud, emerge un mondo costruito sulla passione e l’estasi. Alle iniziali avventure del giovane con "sgualdrinelle ammalate e squallide (…), di un’eleganza fatta di cianfrusaglie e di moinette apprese al cinema, a pesca di bigliettucci di banca untuosi nelle tasche dell’amante" si sostituisce, in modo tanto sinuoso quanto dirompente, l’amore del vecchio per una creatura dal sorriso che esprime "bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia", dal "profumo mai sentito, un odore magico di mare", dalla voce che pare un canto. Nonostante Giuseppe Tomasi di Lampedusa sia noto per Il Gattopardo, non si può far a meno di annoverare tra i suoi capolavori anche quel piccolo gioiello che è Lighea. Pubblicato postumo nel 1961 da Feltrinelli, questo racconto affascina sotto innumerevoli aspetti. Colpiscono le raffinate scelte semantiche che spaziano dall’italiano forbito al dialetto popolano, la precisa e attenta costruzione della sintassi, le scrupolose descrizioni di luoghi, personaggi, eventi, ma soprattutto sensazioni. Dalle pagine del racconto ambientato nella fredda Torino emerge con vigore la calda Sicilia: l’odore della salsedine, il sapore dei ricci di mare, il profumo di rosmarino sui Nèbrodi, il gusto del miele di Melilli, le raffiche di profumo degli agrumeti, "l’incanto di Castellammare, quando le stelle si specchiano nel mare che dorme e lo spirito di chi è coricato riverso fra i lentischi si perde nel vortice del cielo mentre il corpo, teso e all’erta, teme l’avvicinarsi dei demoni".