Come l’incuria di troppi sta sgretolando il nostro patrimonio
di Silvana Biasutti
SIENA. Diciamo grazie alla voce del verbo “arraffare” coniugato dai soggetti più disparati e lasciato coniugare – anche in modo selvaggio – da abitanti, “imprenditori” e amministratori impreparati e ignari. Tutta gente che si riempie la bocca con l’espressione ‘valore aggiunto’ di cui ignora il significato reale (anche perché il valore che si ‘aggiunge’ è virtuale e proviene da reputazione e conseguente idea di eccellenza).
Tutta gente che orecchia vari settori, senza averne esperienze, ma frequenta soprattutto il mondo dei soldi, quelli che arrivano da “un progetto” che viene “finanziato”.
Tutta gente che muove la comunicazione per schivare gli ostacoli che si frappongono tra la propria idea di business – per balzana o offensiva che sia – e la realizzazione, ovvero il finanziamento.
Lo sbocco di rabbia che mi prende in questo pomeriggio rovente viene da lontano; viene da lunghe inascoltate battaglie, o perorazioni, affinché si difenda la sostanza dei prodotti da un’apparenza affidata a gente che pensa solo in termini affaristici; lotte inutili per segnalare l’importanza di difendere non solo i prodotti nella loro sostanza, ma anche i toponimi, di cui si sono appropriati indebitamente aziende che li appongono a merci fasulle, azzerando il loro significato e con esso secoli di storia (cioè di “valore aggiunto”).
Ma la rabbia si consolida ascoltando la radio, mentre viaggio guidando da un luogo bello e notevole, verso un altro luogo notevolmente bello, e, osservando i disegni delle colline, ancora una volta penso che – facendo poche e debite eccezioni – solo alcuni di quelli che conosco e spesso stimo capiscono come questi segni e queste immagini lavorano nella mente di quelli che le guardano, venendo da fuori.
Forse bisogna proprio essere arrivati da fuori e magari avere istanze e desideri che non si limitano a quelli di vivere per diventare ricchi (guardando a Berlusconi), per provare emozioni e accorgersi, allo stesso tempo, che tutto questo sta per finire, pezzetto dopo pezzetto.
La conferma me la dà proprio la radio – quella che ascolto sempre e che un poco comincia a deludermi – che parla di Castelluccio e della fioritura delle lenticchie che attrae ogni anno visitatori che accorrono ad ammirare le sfumature dei colori che trasformano quelli che sarebbero “solo” dei campi coltivati in un paesaggio tra i più poetici. Il piccolo villaggio di Castelluccio, come sappiamo, è stato distrutto dal terremoto, il futuro si fa oscuro e problematico, quindi ci si appresta a dare una svolta a questo luogo già poco abitato quando era solo noto per l’ottimo legume, figurarsi ora. E l’idea qual è? Si sta progettando un bel centro commerciale, piuttosto grande, disegnato da una star dell’architettura e parzialmente finanziato da una multinazionale. Punto. Aggiungo solo che a Castelluccio, rinomata per le lenticchie, di sicuro so che anche molte di quelle provenienti da agricoltura “non UE” venivano impacchettate per la distribuzione e la vendita.
La mia arrabbiatura odierna (c’è bisogno che io spieghi le perplessità di fronte a un bel centro commerciale – per vendere cosa e a chi – piazzato a ridosso del ricostruendo (si spera) villaggio di Castelluccio?) si somma a quella che mi prende aprendo i quotidiani nazionali e leggendo con attenzione la campagna pubblicitaria di una nota marca di pasta alimentare made in Italy.
L’annuncio è di certo veritiero e spiega – in una body copy molto ben scritta – perché made in Italy è solo un modo di dire, privo di valore intrinseco. L’annuncio infatti afferma che una pasta così buona si merita i grani migliori; ma purtroppo non sempre i grani italiani sono all’altezza (sic!) degli standard qualitativi necessari per fare una pasta così buona, perciò succede che il grano per quell’eccellenza del made in Italy può arrivare dal Canada (paese notoriamente solatìo) o da altri luoghi; ma beninteso che qualche volta arriva anche dall’Italia …
Che sarebbe come dire che il pecorino toscano può essere fatto con latte olandese, il prosciutto di Parma con cosci teutonici, il Grana con latte di chissà dove … und so weiter.
Se il made in Italy viene considerato solo come una torta da spartire, possiamo salutare il “valore aggiunto” che è qualcosa che parla di uno stile, un gusto (non solo un sapore, neh!), una poetica legati a contesti produttivi (v. Beccattini), distretti culturali in cui il paesaggio diventa prodotto, ma anche arte e canzone e racconto … purché siano davvero … made in Italy. Signori amministratori, datevi una mossa: tutelate la vostra cadrega facendo gli interessi di questo nostro ricchissimo (ancora) paese. Lavorate per questo e restituiteci un po’ di dignità.