Come sempre, evitare semplificazioni
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di Mario Ascheri
SIENA. Devo un ringraziamento vivissimo al Circolo degli Uniti per avermi invitato a collaborare alla presentazione del libro freschissimo di Alberto Fiorini, valoroso studioso di res Senenses, dedicato specificamente a Palio e Nobiltà (Pacini editore, Pisa), quanto mai tempestivo per il palio di luglio – essendo stato sponsorizzato appunto dei nobili di Provenzano dal 1656 fino al 1836. Non ripeterò qui le mie considerazioni svolte in quella sede, un condensato di quattro-cinque secoli in poche decine di minuti: quanto sarà stato digeribile per i pur attenti spettatori non oso immaginarlo.
Qui vorrei solo offrire qualche cautela di base per avvicinarsi al complicato problema. Come in tante altre questioni della storia senese (tipo antichità SMS o MPS o contrade, che sono state dichiarate immutate da 500 anni ancora pochi giorni fa…), anche questa è molto complicata per cui è già tanto riuscire a farlo capire con qualche esempio concreto.
L’occasione ci è ora offerta da un bell’articolo su sienanews.it di Maura Martellucci e Roberto Cresti su Quirina Mocenni, la senese nota animatrice culturale all’inizio dell’Ottocento, oltreché appassionata ‘corrispondente’ (se così vogliamo dire) di Ugo Foscolo. La quale Mocenni è giustamente presentata come nella tradizione: una nobildonna d’avanguardia, sensibile e colta.
Senonché i Mocenni nel Settecento non erano affatto dei nobili (come non lo era il marito di Quirina), ma dei ricchi commercianti che avevano saputo segnalarsi nella società senese e che, come tanti altri, da tempo meritavano di non essere più discriminati nei loro diritti politici. Quello che tentò di fare appunto Pietro Leopoldo quasi alla fine della sua esperienza toscana, nel 1786, venendo incontro a un malcontento che serpeggiava ormai quanto meno dagli inizi del secolo.
Cos’era successo? Che dalle poche decine di famiglie di ‘casati’ elencati nel 1277, con Tolomei e Piccolomini, Ugurgieri, Saracini, Salimbeni, Malavolti ecc. quando si entrò in età medicea presto, entro il 1500, furono riconosciuti come nobili tutti i riseduti in Concistoro (la giunta bimestrale di governo) e i loro figli (legittimi). Fu una svolta clamorosa, perché la Repubblica fino a fine ‘400 aveva tenuto lontano dal Concistoro proprio i nobili, giudicati potenti pericolosi per l’aequalitas repubblicana!
I vari potenti del tempo – dai Bichi ai Chigi, dai Borghesi agli Zondadari, dai Patrizi ai Petrucci, ai Sozzini -, erano dei ‘popolari’, a volte anche orgogliosamente avversari dei nobili. I quali ultimi, ammessi al governo solo al tempo della grave crisi che impose un rimescolamento dei gruppi politici tradizionali (i ‘monti’) a fine ‘400 furono detti Gentiluomini proprio per la difficoltà ormai di tenere ad essi riservata la definizione di nobili – quali erano ritenuti ad esempio i Nove, monte ‘popolare’, da Machiavelli!
Le molte ‘eccellenze’, tra le quali emergeva Agostino Chigi, nei primi anni del 1500 probabilmente il banchiere più ricco d’Europa, volevano adeguarsi alla ‘moderna’ cultura europea che valorizzava i nobili, che ormai non sapeva più discriminarli.
Su questo punto Firenze e Siena si logorarono fino all’esaurimento delle loro Repubbliche, mentre Genova e Lucca riuscirono a bloccare la dinamica ‘popolare’ e avviarsi più o meno pacificamente verso il trionfo della nobiltà. Come Venezia aveva saputo fare sin da fine Duecento con saggezza tutta mercantile… conviene.
Solo da fine ‘500 invece a Siena si chiarì la situazione, creando così una nobiltà larga in buona parte del tutto nuova, composta di centinaia e centinaia di famiglie nonostante la scarsa popolazione della città (sui 18mila residenti), perché ereditavano la tradizionale larga partecipazione al governo della città e della sua Repubblica. Perciò il Seicento, secolo del Monte dei paschi e del palio delle contrade, fu anche quello del tripudio della nobiltà senese, che vide trionfare a Roma, oltre a vari cardinali, medici ed artisti, altri due papi senesi come Paolo V e Alessandro VII (che furono anche gli ultimi).
Il trionfo fu però anche il prodromo della crisi della nobiltà, che da fine secolo si rinchiuse in una oligarchia senza ricambio, indebolita dalle spese fatte nelle ville e alla corte principesca di Mattias de Medici e dei suoi successori. Fiorirono allora le tre accademie e il Circolo degli Uniti che ebbe presto, dai Lorena, come sede la Mercanzia. Borghesi brillanti come Gerolamo Gigli furono ammessi alla nobiltà, ma le cooptazioni furono rare e le situazioni contraddittorie come quella dei Mocenni si sarebbero presto moltiplicate.
Da metà Settecento in poi molte famiglie tradizionali si estinsero andando ad arricchirne altre con i loro patrimoni per via matrimoniale o ereditaria: come nel caso di Fabio Saracini a favore di Guido Chigi. Altre nuove si affermarono, come i Grottanelli.
Conclusione? Anche la nobiltà vive nella storia e quella senese, più di altre, è una realtà stratificata perché riflette le tormentate vicende politiche della città. Ma essa è stata fondamentale, oltreché per incoraggiare il palio, nel creare l’immagine elegante della città, le sue relazioni internazionali, la sua presenza brillante a Roma, i suoi molti monumenti insigni e le sue chiese ricchissime, spesso proprio grazie ai fasti del Seicento.
Ma come il palio e il Monte dei paschi anche la nobiltà non si sottrae alla storia. Un po’ come i partiti e movimenti politici oggi: il tempo passa e gli ideali e le leadership cambiano.
Non dimentichiamolo.