di Silvana Biasutti
MONTALCINO. Mi arriva, per conoscenza, una mail al fulmicotone indirizzata a un giornalista di Radio24 che conduce una trasmissione intitolata Fabbrica. La mail è aggressiva ma precisa, secondo lo stile più recente (riveduto e corretto) del mittente, che è Franco Ziliani. Lo cito, non solo perché è il mittente della mail; non solo perché – in una telefonata successiva – mi ha detto che quando ha ascoltato la trasmissione in oggetto gli sono venuta in mente, ma lo cito perché FZ è un giornalista del mondo che mi circonda (quello del vino) ed è uno che non sa mentire su quello che ascolta e su quello che assaggia. Su ciò che ascolta non metto parola, ma, a mio parere (e ne ho le prove) quando assaggia un vino la competenza dello Ziliani diventa insindacabile e più volte mi ha lasciata di stucco.
Non mi stupisco, perciò, che Franco Ziliani sia sovente vittima della propria utopia …
Sono rimasta sorpresa, invece, che la ragione della mail indirizzata al suo collega di Radio 24 riguardasse l’aceto. Ero convinta che uno come lui avrebbe spento immediatamente la radio, scoprendo che si stava parlando di quello che mi sembra quasi un nemico del vino, almeno nell’ambito del marketing, anche se l’aceto – preso per il verso giusto – è un liquido meraviglioso, in grado di aggiungere ai cibi più diversi sapori e profumi che li arricchiscono e li fanno giocare, gastronomicamente parlando, all’infinito, o quasi.
Certo questo non traspare dalla pur interessante (e ben costruita) trasmissione di cui sopra (che sono andata ad ascoltare in podcast); non si percepisce nemmeno lontanamente, anche perché il conduttore si è un po’ perso dietro la parola “industria”, dimenticando che quando si recensisce un fabbrica di cibo chi ascolta dovrebbe vederlo, o meglio assaporarlo, con l’immaginazione. Perché proprio la radio – media indisturbato da immagini pedisseque e/o banali – è in grado di farti immaginare qualsiasi cosa. Dipende dall’abilità e dall’esperienza di chi conduce, parla, evoca, sollecita con toni e scelte lessicali appropriate.
Invece di applicarsi a presentare il prodotto della fabbrica – anzi dell’industria – dell’aceto come una chicca (sebbene industriale), il giornalista che conduce continua a tornare su un tema che pare gli stia particolarmente a cuore: tutto ciò che è industriale è bene, è buono, crea posti di lavoro, aiuta il paese nella pur stiracchiatissima crescita, tutto ciò che è ‘naturale’, biologico, fatto a mano, è da evitare come la peste bubbonica, è falso come Giuda, è dannoso, è “frutto di una montatura”.
Si dà il caso che io conosca gli aceti de cuius e che anche li consumi, perché sono un buon prodotto industriale. Poi quando riesco a procurarmene uno davvero balsamico, magari modenese, mi consolo e recupero la mia fiducia nella denominazione. Per quanto riguarda invece l’aceto di vino io ho una “madre” di tutto rispetto; è una “madre” che mi arriva da mia nonna e che sta in una damigianetta appartata, ben lontana dagli sguardi delle pregiate bottiglie (pochissime) che ogni tanto mi arrivano a casa. Il mio aceto personale viene implementato – da quattro generazioni – con le fondate delle migliori bottiglie bevute, cucchiaio dopo cucchiaio, goccia dopo goccia. E non c’è gara, con l’industria, perché questa è tutt’altra cosa; qui si possono tirare in ballo anche gli affetti e i ricordi. Con l’industria no; con l’industria sappiamo che si tratta di processi sicuri – massima igiene –, razionali, tutti robotizzati. Ecco, non ho capito l’enfasi su questo punto, anche se capisco che condurre una realtà industriale che fattura più di cento milioni di euro con duecento dipendenti possa dare margini operativi considerevoli. Ma allora perché perdersi a denigrare e svillaneggiare i cibi naturali, artigianali, biologici?
Forse la domanda di ‘natura’ che proviene da un numero crescente di consumatori sta acquisendo una certa consistenza e incomincia a dare fastidio?
Se fossi un produttore – o meglio un gruppo di produttori e loro associazioni – di olio, aceto, conserve, vino, (penso al manifatturiero alimentare di profilo alto), sarei stimolato dall’intervista segnalata da Franco Ziliani su almeno due punti. Il primo riguarda un’analisi scientifica – svolta da istituti che siano davvero indipendenti (e lontani dalla politica) sullo spazio nei mercati per prodotti alimentari d’èlite (proprio come il design, l’arredamento, gli accessori moda), analizzando in tal senso alcuni paesi strategici per l’export; il secondo punto riguarda la capacità di mettersi insieme per avere accesso ad alcune risorse, ad acquisti di servizi, e a ricerche scientifiche relative ai singoli prodotti (consorziarsi davvero, con l’obiettivo comune di crescere qualitativamente).
Ci sarebbe un terzo punto, che vorrei dare per scontato e riguarda un aspetto di quell’intervista che ho avvertito come un colpo basso: quando si scrive, si dice e si vende – bio, naturale, fatto a mano, … – non deve esserci ombra di dubbio, non ci devono essere scorciatoie, non può essere lasciato il minimo spazio al facile sarcasmo di chi racconta che la natura nasce in fabbrica. Con tutto il rispetto per l’industria che ha obiettivi diversi e diverso ruolo sociale.