Il paesaggio che cambia a Montalcino
di Silvana Biasutti
MONTALCINO. Chi pensa al vino e viene a Montalcino può subire diverse suggestioni. È subito Brunello, naturalmente, ma il vino – i vini, anzi! – e la gente sono cambiati, come tutto cambia; ma qui, forse, in modo un po’ speciale.
C’era una volta il Brunello di Montalcino, un vino che viene da lontano nel tempo; un vino poco conosciuto un tempo: pochi produttori, un’elite di famiglie e persone, i cui discendenti anche oggi conoscono l’uso di mondo. Poi arrivano “quelli di fuori” e si sono visti speculatori, visionari, idealisti, finanzieri, hippy rifatti. Un campionario umano fuori dall’ordinario per gamma e eterogeneità giunto a esplorare quest’angolo di Toscana (che una volta era un po’ fuori dagli itinerari più conosciuti) perché i luoghi erano belli, e ognuno aveva un suo sogno personale; il vino era (o sembrava) una conseguenza della bellezza.
Per dirne un po’di più: chi andava in Piemonte ci andava per il vino; chi andava in Toscana viaggiava alla ricerca di un sogno.
A Milano, per esempio, negli anni ottanta si sognava la Toscana e si beveva Barolo. Poi a Montalcino sono arrivati gli americani e contemporaneamente abbiamo visto la crescita dei miti, accanto a Franco (ovviamente Biondi Santi) e alla sua irremovibile eleganza, ecco il Comandante, ecco il dinoccolato Piero Palmucci alla ricerca della perfezione, ecco il Gianfranco Soldera, che la perfezione la persegue – anno dopo anno – tra studi, rose e un’aria nuova di naturalità. Questi erano i cardinali e poi crescevano i produttori legati alla tradizione ma con un occhio al futuro e un’autentica consapevolezza di ciò che facevano; intorno a questi poche decine di produttori piccoli e medi autoctoni o arrivati. Un occhieggiare qua e là di biologico e di nuovi sguardi alla terra; la vigna che cresce su un suolo in armonia con sé stesso è un pensiero che attecchisce e che inizia lentamente a prendere piede soprattutto tra produttori che assomigliano molto a certi vigneron francesi e che di certo da questi hanno imparato, oltre che da Steiner e da Jung: gente legata alla terra e anche sensibile all’ambiente e ai rischi legati all’inquinamento e alla crescita disordinata …
E’ di poco più di un anno fa la nascita di Montalcino Bio, che raggruppa produttori piccoli, medi e grandi sensibili – magari anche in modo opportunistico – ai temi dell’ambiente e legati da una visione più accorta e futuribile nei confronti di suolo, aria, acqua; non solo idealisti, ma anche imprenditori che ascoltano le campane del mercato.
E anche un movimento come quello di Montalcino Bio, che a tutta prima può essere percepito come senso del marketing, in realtà è uno sguardo lucido che muove una presa di coscienza che altrimenti sarebbe più lenta e meno condivisa.
Molto più lenta, perché il nome Brunello può produrre ubriacature, anche prima di bere, in quelli che vedono solo gli aspetti legati agli investimenti in quella che talvolta pare la “terra promessa”.
Ma chi ci lavora sopra sa che per far luccicare l’oro bisogna lavorare sodo: occorrono sguardo, passione, formazione continua, cultura e poi ancora cultura.
Non si tratta di libri letti, ma di capacità di elaborare saperi, storia, conoscenza. E si tratta di riuscire a esprimere il proprio talento, senza lasciarsi sedurre da scorciatoie.
Questo è il sentire che vola lieve, ma pervasivo, a Montalcino, oggi. Insieme alle nuove proprietà – a volte uomini e imprese, talvolta finanza – c’è anche questa idea che influenza un po’ tutti, o per lo meno i più lungimiranti. Influenza quindi anche chi investe per avere un ritorno economico e finanziario, e non solo chi ha comprato “una vigna a Montalcino” per la vanità di possederla. Perché è la terra la vera padrona, non gli uomini. Anche a Montalcino.