SIENA. Dal convegno di studi "Calvino. Lezioni senesi", tenutosi oggi (17 settgembre) al Santa Maria della Scala per il programma dedicato al grande scrittore, è emerso un quadro significativo della personalità di uno degli autori più amati e letti nel mondo.
Hanno parlato, Mario Barenghi, docente di letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano Bicocca, Martin
McLaughlin, professore di italiano alla Faculty of Modern Languages at University Of Oxford e Francesca Serra, ricercatrice al Dipartimento di Italianistica di Firenze. Presente anche Esther Calvino, che ha ringraziato per le giornate di ricordo dedicate al marito.
Barenghi, entrando nel dettaglio del ciclo di sei lezioni che Calvino avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard (l’intellettuale morì mesi prima n.d.r.), ha fatto il punto, avvalorato anche da considerazioni personali, sui valori che, per lo scrittore, dovevano stare alla base della letteratura per il nuovo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. <<Peccato – ha evidenziato – non abbia affrontato, ma solo abbozzato e poi lasciato, il tema dell’intersoggettività, il cammino dell’io continuamente attraversato dal ‘cammino’ degli altri>>. Un argomento allora non fondamentale, ma che prenderà il suo spazio a breve, per interessare insieme agli ambiti ristretti dell’individualità quelli più complessi della politica.
Calvino, particolarmente attento alle trasformazioni delle società, alla veloce evoluzione della tecnologia e dell’informatica, temeva per il futuro della lingua. Della perdita del senso racchiuso nelle parole, e delle trasformazioni innescate anche sotto la spinta di una globalizzazione che pesa sugli aspetti economici come su quelli culturali. Lui la definiva la peste del linguaggio. Nessuna esattezza, solo approssimazione e sciattezza.
"Tutto può cambiare, scriveva, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé, come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno". E sull’importanza della lingua è intervenuto McLaughlin. "Per comprendere Calvino lo si deve leggere in inglese, perché è più facile tradurre l’italiano in questa lingua anziché in francese e spagnolo, lingue romanze troppo simili fra loro". I temi delle lezioni americane emergono, in questo contesto, in tutta la loro importanza. Soprattutto nel rapporto di coerenza tra parole e contenuti, perché per tutta la vita Calvino si occupò della pratica della traduzione.
"Un vero e proprio aguzzino dei traduttori, anche se per alcuni aveva grande simpatia, come nel caso di Weaver – ha detto il professore inglese -. Per lui, infatti, la traduzione era un’arte, e il passaggio da una lingua a un’altra un miracolo, perché il traduttore letterario traduce l’intraducibile". Da qui la necessità di un metodo da seguire, indicava Calvino, incentrato su un’indagine critica. "Per me – diceva – che i miei libri siano tradotti è un grande dolore. So bene che tutte le traduzioni sono cattive. So che per il mondo circolano col mio nome libri che non hanno niente a che fare con quello che ho scritto". Ma, al contempo, asseriva: "Per quanto difficile sia tradurre gli italiani, vale la pena farlo, perché viviamo col massimo d’allegria possibile la disperazione universale. Se il mondo è sempre più insensato, l’unica cosa che possiamo cercare di fare è dargli uno stile".
Uno stile sorprendentemente legato alla realtà della vita quotidiana, anche in presenza dell’elemento fantastico, usato per meglio spiegare il simbolismo e l’introspezione dei vari personaggi.
Un ricordo, quello senese, di taglio storico-scientifico che certo, avrebbe in qualche modo messo in difficoltà Calvino. Come ha spiegato Francesca Serra, infatti, l’autore verso questa elaborazione mentale ha sempre avuto un atteggiamento contraddittorio. "Diffidenza nei confronti della memoria individuale e attrazione per quella collettiva". Una difficoltà che ben ritroviamo nei suoi scritti dove, il desiderio di scrivere in prima persona soggiace alla terza, come avviene ne “Il sentiero dei nidi di ragno”, il suo primo romanzo (1947), dove il vero protagonista che vive la Resistenza partigiana non è Pin ma lui stesso.
Italo Calvino ama la memoria, la sua opera narrativa ne è piena come la difficoltà nel gestirla e la paura di perderla. Il tratto distintivo che continua ad affascinare, assieme al suo intendere la scrittura come ricordo di tutti, è il legame tra il rigore e la flessibilità, tra sistematicità metodica e guizzo. Una cifra che lo distingue dagli altri.
Italo Calvino rimane un classico post-moderno. Senza eredi, al contrario di Gadda e Pasolini. Per questo continueremo a leggerlo e amarlo.
Hanno parlato, Mario Barenghi, docente di letteratura italiana contemporanea all’Università di Milano Bicocca, Martin
McLaughlin, professore di italiano alla Faculty of Modern Languages at University Of Oxford e Francesca Serra, ricercatrice al Dipartimento di Italianistica di Firenze. Presente anche Esther Calvino, che ha ringraziato per le giornate di ricordo dedicate al marito.
Barenghi, entrando nel dettaglio del ciclo di sei lezioni che Calvino avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard (l’intellettuale morì mesi prima n.d.r.), ha fatto il punto, avvalorato anche da considerazioni personali, sui valori che, per lo scrittore, dovevano stare alla base della letteratura per il nuovo millennio: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e coerenza. <<Peccato – ha evidenziato – non abbia affrontato, ma solo abbozzato e poi lasciato, il tema dell’intersoggettività, il cammino dell’io continuamente attraversato dal ‘cammino’ degli altri>>. Un argomento allora non fondamentale, ma che prenderà il suo spazio a breve, per interessare insieme agli ambiti ristretti dell’individualità quelli più complessi della politica.
Calvino, particolarmente attento alle trasformazioni delle società, alla veloce evoluzione della tecnologia e dell’informatica, temeva per il futuro della lingua. Della perdita del senso racchiuso nelle parole, e delle trasformazioni innescate anche sotto la spinta di una globalizzazione che pesa sugli aspetti economici come su quelli culturali. Lui la definiva la peste del linguaggio. Nessuna esattezza, solo approssimazione e sciattezza.
"Tutto può cambiare, scriveva, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé, come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno". E sull’importanza della lingua è intervenuto McLaughlin. "Per comprendere Calvino lo si deve leggere in inglese, perché è più facile tradurre l’italiano in questa lingua anziché in francese e spagnolo, lingue romanze troppo simili fra loro". I temi delle lezioni americane emergono, in questo contesto, in tutta la loro importanza. Soprattutto nel rapporto di coerenza tra parole e contenuti, perché per tutta la vita Calvino si occupò della pratica della traduzione.
"Un vero e proprio aguzzino dei traduttori, anche se per alcuni aveva grande simpatia, come nel caso di Weaver – ha detto il professore inglese -. Per lui, infatti, la traduzione era un’arte, e il passaggio da una lingua a un’altra un miracolo, perché il traduttore letterario traduce l’intraducibile". Da qui la necessità di un metodo da seguire, indicava Calvino, incentrato su un’indagine critica. "Per me – diceva – che i miei libri siano tradotti è un grande dolore. So bene che tutte le traduzioni sono cattive. So che per il mondo circolano col mio nome libri che non hanno niente a che fare con quello che ho scritto". Ma, al contempo, asseriva: "Per quanto difficile sia tradurre gli italiani, vale la pena farlo, perché viviamo col massimo d’allegria possibile la disperazione universale. Se il mondo è sempre più insensato, l’unica cosa che possiamo cercare di fare è dargli uno stile".
Uno stile sorprendentemente legato alla realtà della vita quotidiana, anche in presenza dell’elemento fantastico, usato per meglio spiegare il simbolismo e l’introspezione dei vari personaggi.
Un ricordo, quello senese, di taglio storico-scientifico che certo, avrebbe in qualche modo messo in difficoltà Calvino. Come ha spiegato Francesca Serra, infatti, l’autore verso questa elaborazione mentale ha sempre avuto un atteggiamento contraddittorio. "Diffidenza nei confronti della memoria individuale e attrazione per quella collettiva". Una difficoltà che ben ritroviamo nei suoi scritti dove, il desiderio di scrivere in prima persona soggiace alla terza, come avviene ne “Il sentiero dei nidi di ragno”, il suo primo romanzo (1947), dove il vero protagonista che vive la Resistenza partigiana non è Pin ma lui stesso.
Italo Calvino ama la memoria, la sua opera narrativa ne è piena come la difficoltà nel gestirla e la paura di perderla. Il tratto distintivo che continua ad affascinare, assieme al suo intendere la scrittura come ricordo di tutti, è il legame tra il rigore e la flessibilità, tra sistematicità metodica e guizzo. Una cifra che lo distingue dagli altri.
Italo Calvino rimane un classico post-moderno. Senza eredi, al contrario di Gadda e Pasolini. Per questo continueremo a leggerlo e amarlo.