Un Paese ricco… di don Abbondio
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di Silvana Biasutti
SIENA. Due giorni prima dell’ultimo terremoto, un mio vicino uscendo di casa ha scoperto che i due alberi che da più di trent’anni stavano a ridosso dell’angolo della sua casa erano stati ‘dimezzati’ (nonostante si sia fuori stagione di potatura), cioè tagliati e ridotti a un terzo di quello che erano: annichiliti. E, annichilito, il mite vicino ha dovuto “prendere atto” dello scempio fatto da un nuovo residente che gli ha comunicato, senza alcuna esitazione, di averli tagliati (prima che il padrone degli alberi si alzasse) “perché gli toglievano luce”.
Nota bene: il tagliatore, quando lavora indossa una delle divise più gloriose del nostro paese. Nessuno ha fiatato su questo gesto di sopraffazione; solo una signora guardandomi fisso negli occhi, ha puntato l’indice alla tempia rotandolo rapidamente e nel contempo scuotendo la testa, con aria preoccupata. Un’amica che viene da lontano, invece, mi ha raccomandato di girare alla larga da tutto ciò e di starne fuori.
Da un po’ di tempo a questa parte, quando mi alzo al mattino, e mi ricordo di vivere in Italia, mi assale la preoccupazione: è un paese che riconosco sempre meno nelle auliche descrizioni dei giornali stranieri. Riassumendo, noi stiamo in un Paese in cui le tasse sono pagate soprattutto dai pensionati; siamo l’approdo di centinaia di migliaia di migranti che secondo alcuni vengono a “toglierci il lavoro”, secondo altri sono una manna; comunque migranti che esitiamo a identificare perché la regola europea dice che devono rimanere nel paese europeo dove sono sbarcati e identificati, ma siccome dicono che quasi tutti sono in transito verso altri paesi, nessuno sta pensando a criteri e regole indispensabili per pianificare un futuro di queste persone nel nostro Paese: però il resto dell’Europa costruisce muri e tiene le frontiere ben chiuse a questi flussi.
Da alcuni mesi questo Paese è anche flagellato da una serie crescente di terremoti, la cui azione pare stia spaccando l’Italia a metà – come pronosticava quarant’anni fa un amico scienziato che me ne parlò diffusamente.
I terremoti, oltre a causare un consistente numero di senza tetto (momentaneamente o definitivamente) stanno anche distruggendo un buon numero di testimonianze storiche, artistiche e religiose; per affrontare questa emergenza di portata epocale bisognerebbe stanziare più di duecento miliardi di euro (cifra evocata da più parti alla radio in queste ore), cioè un po’ più dell’ammontare dell’evasione fiscale. Basterebbe recuperare questi soldi per riuscire ad affrontare contemporaneamente la messa in sicurezza del patrimonio edilizio (privato e pubblico) e il recupero del patrimonio artistico. Però nessuno sa come fare (o ne ha l’intenzione) per recuperare l’evasione fiscale.
Siamo parte di un consesso – l’Europa – che sorveglia i nostri conti consapevole delle ruberie e del tasso altissimo di corruzione che ci pervade e che mina la nostra credibilità. Nulla sfugge a questo clima in cui domina l’ipocrisia: non la politica (imputata numero uno), non le istituzioni, non il sistema bancario che fino ad alcuni mesi fa veniva descritto, dal nostro governo, come molto solido.
Perciò quando il nostro energico e coraggioso presidente del consiglio dichiara che andremo avanti, ricostruiremo, ridaremo una casa a tutti e non terremo in conto nessun vincolo burocratico europeo, non riesco a capire come – con che soldi, con quali inediti prelievi a coloro che le tasse già le pagano – pensa di fare.
Il bello dell’Italia è il titolo di un libro scritto da un giornalista olandese corrispondente dall’Italia per un quotidiano del suo paese. Racconta le innumerevoli risorse – anche creative – con cui gli italiani affrontano e risolvono gli altrettanto innumerevoli problemi ed emergenze.
Ma gli italiani – visti da vicino – raccontano anche qualcosa di diverso. Siamo un paese in piena regressione culturale e sociale: troppi cittadini assomigliano al nuovo abitante del villaggio che non esita a sopraffare un vicino; e ancor più cittadini assomigliano a quelli che lasciano che ciò accada senza fare niente per impedirlo: per quieto vivere, per paura, per viltà e per incultura.