Forse il governo dovrebbe domandarsi "che fare per far ripartire la domanda"
SIENA. Avete provato ad acquistare un ventilatore? Io ho tentato di farlo l’estate scorsa da un fornitore casuale, a stagione inoltrata, e al negozio mi hanno risposto che “no, ormai è tardi, li abbiamo terminati tutti”. Ohibò lui li aveva terminati ma certo li avrei trovati nel negozio di casalinghi a cui passo davanti tutti i giorni … “no, guardi, l’anno prossimo, a giugno, ne trova finché ne vuole, ma all’inizio d’agosto, se la stagione è molto calda … sono finiti”.
“Finiti”? i ventilatori? con almeno due marchi italiani famosi che ne avevano fatti di tutti i tipi e per tutte le esigenze?.
Sì, finiti, perché – mi hanno spiegato dal ferramenta di sfiducia – arrivano in container dall’oriente, vengono distribuiti ai punti vendita e una volta esauriti nessuno si sogna di riordinarne, per poi tenerli in magazzino.
Perché il magazzino non esiste più, e nemmeno la fabbrica che lo riforniva di tutte quelle merci che fanno parte (facevano parte) del paesaggio domestico – pinzette, mollette, piccoli attrezzi e materiali che servivano per la manutenzione della casa e della nostra esistenza. Incluse le cosiddette ‘small housenappliances’ cioè i piccoli e piccolissimi elettrodomestici. E nemmeno gli operai delle suddette fabbriche sparite, e nemmeno i magazzinieri, né i venditori e quasi nemmeno i ri-venditori delle suddette merci, sostituiti da catene o da vendite on line, ci sono più.
Gli operai mandati a casa, i magazzinieri idem, i venditori pure, i rivenditori e tutti i loro indotti, formavano la ‘società del lavoro’, un tessuto di attività concatenate e interdipendenti capaci di offrire un servizio complessivo in risposta alla nostra vita quotidiana.
Avete letto – o visto in tv – delle fabbriche in Bangladesh in cui migliaia di lavoratori tagliano e cuciono, ripetendo migliaia di volte lo stesso taglio e la stessa cucitura che danno forma a un vestito o a un pantalone o a una tuta? Forse ci siamo accorti per la prima volta di questa realtà nel momento in cui uno di questi fabbriconi è crollato provocando un’ecatombe che – perdonate il cinismo – ha sfiorato i nostri tailleur, più di quanto abbia colpito il nostro cuore e la nostra mente.
Ma quegli uomini e quelle donne di quel lontano paese lavorano quotidianamente (e a costo bassissimo) in luogo di quelli che disseminati nei paesi di tutt’Italia venivano chiamati ‘fasonisti’, ed erano considerati l’eccellenza italiana: essi tagliavano e cucivano tutto il made in Italy dell’abbigliamento e della moda, mettendo a frutto saperi plurisecolari (che sono alla base dello stile italiano). Ma ora sono a casa e anche i loro indotti sono a casa.
Ecco, io ho buttato giù due righe per segnalare due settori di cui non conosco i numeri, perché mi soccorrono solo l’esperienza dei consumi quotidiani, l’abitudine a ragionare e la lettura delle notizie (ormai chiamarla informazione è sbilanciarsi un po’ troppo).
Infine: avete notato che l’agricoltura ha trovato più spazio nelle notizie? Certo, perché l’agricoltura “tiene”, cioè non crolla, anzi fa numeri incoraggianti, anche perché nessuno finora ha potuto dislocare la terra altrove, e perché al mero prodotto si può aggiungere il valore del luogo (storia, paesaggio, arte, eccetera) e usare per produrre il lavoratore immigrato, che – preso globalmente – ha tutto l’interesse a lavorare accontentandosi …
Le mie sono solo piccole annotazioni che potrebbero far parte di una doverosa analisi dell’organizzazione e dei flussi del lavoro – in Italia e in Europa -; cioè quel tipo di analisi che si usa fare nelle aziende, per capire quali sono le prospettive, qual è lo stato di salute dell’impresa, come si possono migliorare i conti.
È un’indagine che il Governo dovrebbe commissionare (magari l’ha fatto e leggeremo i risultati) per capire come mai “la domanda non riparte”; un’indagine che avrebbe potuto commissionare anche Confindustria, al proprio centro studi (ma se Confindustria scopre dopo anni che il Sole 24ore è in perdita secca, forse erano distratti).
Insomma la cosiddetta domanda (quella che non riparte) di solito arriva dai consumatori, cioè dai lavoratori. Se abbiamo esportato tutto il lavoro in paesi dove i lavoratori sono pagati infinitamente meno, gli ex- lavoratori, rimasti disoccupati in Italia, non hanno più domande da fare.
Bisognerebbe che chi governa cominciasse a domandarsi che cosa bisogna fare, per far ripartire la domanda