La collettività non è messa in grado di affrontare il cambiamento
SIENA. Se io telefono a un qualsiasi gestore telefonico, riceverò una risposta automatizzata, un disco registrato che mi orienta verso lo “sportello” dove troverò (ma non sempre e non in modo soddisfacente) le risposte di cui ho bisogno.
Se, al tempo della vendemmia, cammino lungo le vigne di qualche grande azienda agricola, potrò spesso ammirare enormi macchine che percorrendo i filari vendemmieranno al posto di schiere di persone che lavoravano “a mano”. In quelle stesse vigne, nelle altre stagioni, macchine analoghe eseguono gli altri lavori della vigna, al posto di uomini e donne.
I posti di lavoro che mancano, oggi, stanno anche tra queste due parentesi: perché le macchine hanno preso il posto degli uomini e delle donne – nel primo caso a prezzo di una diminuzione brutale del servizio reso all’utente –, le macchine, e l’automazione in genere, hanno anche preso il posto dell’uomo spesso nei lavori più tradizionali – dove si pensa che l’occhio e la manualità siano all’origine di quella qualità che ci ha reso famosi nel mondo –.
Ma, in entrambi i casi e in tutti gli innumerevoli casi tra quei due citati qui sopra, c’è anche un’altra componente: un’imprenditoria che ha contratto sempre di più i costi del lavoro “umano”, automatizzando il più possibile, laddove è possibile. Perché il costo di un posto di lavoro nel nostro paese è insostenibile – gravato com’è da infiniti balzelli –, e perché molti imprenditori non esitano a deprimere la qualità (cioè le caratteristiche dei propri prodotti che li hanno resi appetibili e talvolta famosi) per mantenere intatto il proprio margine di guadagno.
Tutte queste considerazioni sono al netto di malaffare che corrode e deforma il mondo del lavoro, al netto di evasione fiscale che penalizza le entrate, al netto del mondo delle amministrazioni e istituzioni pubbliche che si è gonfiato all’inverosimile, fino a creare quel fenomeno chiamato burocrazia improduttiva che è come uno squarcio in un secchio con cui si dovrebbe travasare un liquido.
Credo che chiunque abbia avuto a che fare con il mondo del lavoro, in fabbriche o in uffici privati, dal 1960 a oggi, e che continui ad avere contatti – dopo più di cinquant’anni con quel mondo che oggi si è contratto all’inverosimile – si ricorda bene come dagli anni sessanta, per quasi vent’anni circa, ci sono stati crescita, evoluzione, sviluppo, e come negli ultimi decenni invece la crescita – cosiddetta – sia stata quella di situazioni fasulle, in quanto venute a crearsi in corrispondenza di “posti” venutisi a creare al seguito di burocratizzazione eccessiva e di arzigogoli vari. Fino alla frenata brutale di questi ultimissimi anni; frenata che – tuttavia – non contempla una razionalizzazione nel tempo di tutta la burocrazia inutile, di tutti gli enti che ci affliggono. Una burocratizzazione che grava in modo esiziale sui costi del lavoro: i veri costi del lavoro che qualsiasi imprenditore si trova a guardare con sgomento.
La diatriba – che minaccia di diventare generazionale – tra vecchi o pseudo-vecchi (che non possono ma che dovrebbero andare in pensione, magari avendo versato i contributi per quattro decenni o più) e i giovani che non potrebbero entrare nel mondo del lavoro perché intasato dai vecchi veri o pseudo-tali, che non vogliono o non possono andare in pensione, nasce nel contesto di questo cambiamento.
Tra le altre domande che si pongono quelli che in pensione bene o male ci sono già – alcuni avendo pagato fior di contributi, altri (molti) avendo fruito di scivoli, leggi, o altre creazioni della politica vogliosa soprattutto di accrescere il proprio peso e conservare i propri vantaggiosi privilegi – e che dovrebbero porsi quelli – sempre meno – che lavorano, sperando di poterlo fare fino ai giorni della pensione (se non si hanno santi in un qualche paradiso della politica o dell’amministrazione pubblica) c’è la seguente: “Ma i contributi che ho versato, o quelli che sto versando, dove vanno a finire e vengono doverosamente investiti in modo che fruttino?”.
Anche questa domanda, a mio modesto modo di vedere, grava sui posti di lavoro che mancano e che mancano perché manca anche la fiducia della gente, ormai disillusa da governi che non sembrano in grado di analizzare il mercato del lavoro e i suoi dintorni – scuola da un lato, pensioni dall’altro, e formazione durante tutta la vita adulta delle persone – in rapporto a un mondo che cambia, a velocità prodigiosa; un cambiamento che la collettività nella sua interezza deve essere messa in condizioni di affrontare. Se non è la politica a doverlo fare, a chi tocca? Come mai questo tema non viene affrontato?