charlie
di Raffaella Zelia Ruscitto
SIENA. “Je suis Charlie”… una frase che, nelle ultime settimane ha unito, in un’unica voce, l’intero pianeta. Gente in piazza, in Francia e non solo, per rivendicare il diritto di espressione e per commemorare le vittime dei terroristi islamici, le penne satiriche di Charlie Ebdo. Quelle delle “vignette su Maometto e Allah”. Gente di tutti i tipi si è sentita di far parte dei “difensori della libera espressione”: perchè era giusto; perchè ha ritenuto questo diritto (a giusta ragione) uno dei cardini della democrazia; perchè doveva opporsi al fondamentalismo religioso di alcuni fanatici fuori di senno; perchè la “moda del momento” lo imponeva.
Per qualunque di queste ragioni, al di là della loro onorabilità, resta quel periodo di fermento sociale che è durato, purtroppo, poco tempo per poter garantire la radicalizzazione del concetto difeso. Un fuoco di paglia, oseremmo dire.
Nella vita di tutti i giorni, lo sappiamo, le cose vanno ben diversamente. Esiste, a svariati livelli, una forma subdola censura che impedisce la libera circolazione del pensiero. E si impara a stare zitti: per convenienza, per collusione, per paura, perchè “tengo famiglia”. E ci si trova a vivere l’autoesclusione dalla società civile, salvo poi lamentarsi al bar quando le cose vanno male.
I tanti poco simpatici don Abbondio che circolano per le vie delle nostre città avranno sicuramente, nei giorni della riscossa francese, postato il loro “je suis Charlie” sui social. Tanto per sentirsi in gamba e per scrollarsi di dosso, anche solo per qualche ora, quel senso di frustrazione che si vive, inevitabilmente, quando non si può (ma sarebbe meglio dire: non si vuole) dire ciò che si pensa.
Qualcuno, però, per natura o per impegno civile… qualcuno che davvero si chiama “Charlie”, c’è, vivaddio! Ma per questo qualcuno non si scende in piazza, non si attivano sloogan. Non gli si batte neppure la mano sulla spalla.
Al Monte dei Paschi, per esempio, non si può esprimere un’opinione liberamente. Esistono normative interne che impediscono ai dipendenti di pubblicare un qualsivoglia intervento riguardante l’attività della banca senza il preventivo consenso dell’ufficio comunicazione. Un fatto che potrebbe trovare una giustificazione nella tutela primaria dell’istituto di credito. Ma questa normativa vale anche per chi, pur nella veste di dipendente, chiede spiegazioni ai magistrati su fatti e azioni che riguardano il passato e che sono già attenzianti dalla giustizia? Questa normativa vale anche quando un dipendente della banca riporta frammenti di documenti dell’inchiesta che cerca di far luce su una operazione che ha danneggiato pesantemente la banca? Questa normativa vale anche se un dipendente pone dei dubbi sull’operato della passata dirigenza? Una dirigenza che la banca stessa ha disconosciuti, dal momento che esistono azioni di responsabilità avviate ai danni della passata gestione?
Un procedimento disciplinare è stato avviato nei confronti di un dipendente che si è permesso, indirettamente, di avvalorare quella azione di responsabilità. Ha parlato. Ponendo dubbi circa l’operazione Antonveneta, avrebbe screditato la banca…. Chiedendo di sapere la verità su un capitolo della storia di Mps ancora troppo oscuro, ha messo in cattiva luce non si capisce bene chi. Certamente non la banca. Certamente non l’attuale management. Certamente non l’attività bancaria oggi. E pensare che tutti quelli che usano sobriamente e liberamente la testa avrebbero detto che una richiesta di chiarezza sul passato della banca non potrebbe che fare bene all’immagine attuale di Mps. Una “operazione trasparenza” che certo ha più a che fare con il “codice etico” sbandierato che con la censura che si è voluta perseguire.
Il contratto che si firma con un’azienda dovrebbe presuppore un legame reciproco di rispetto e di, oserei dire, devozione. Ma “devozione” per l’azienda dovrebbe voler dire anche cercare i responsabili del suo declino, di un danno incalcolabile che ancora oggi pesa sul suo destino. Si direbbe che un figlio che chiede la verità sulla morte del padre – magari facendo i nomi di chi lo ha perseguitato in vita – stia recando danno alla onorabilità della famiglia?
Quanti “Charlie” avrebbero dovuto esserci in passato (e anche nel presente) per salvare imprese, aziende, beni pubblici, enti locali! “Charlie” con un’etica personale e a difesa dell’entica dell’ente che erano chiamati a rappresentare!
Ma i nostri giorni ci hanno insegnato un’altra logica: quella della prevaricazione e della’arroganza del potere. La logica dell’omertà e della paura. La logica che vede la vedova di Davide Rossi indagata ma che non trova ancora risposte a inquietanti dubbi sulla morte del capo della comunicazione di banca Mps.
Dobbiamo abituarci a questa logica? O dobbiamo scendere in piazza per far valere la nostra libertà di espressione, il diritto di mostrare il nostro pensiero e di difendere la nostra dignità. La nostra e quella della società civile alla quale apparteniamo?
Dobbiamo soccombere all’arroganza del potere – che si è dimostrato tanto ottuso quanto dannoso – o dobbiamo trovare il coraggio di opporci a chi vuole diffondere il pensiero unico ammantandolo, magari, di finta etica e di finto moralismo?
In un mndo perfetto – o anche semi perfetto – queste domande sarebbero retoriche… “Je suis Charlie”, ovviamente!
