Vincitore del Premio letterario internazionale Città di Anguillara e del MicroEditoria di Qualità è la testimonianza, quanto mai tangibile, di come l’integrazione può veramente concretizzarsi. Lamri, come tanti altri “esuli”, è riuscito, perfettamente, ad entrare in terra italiana e, come lui stesso scrive, ha cercato nuovi pascoli letterari, in “un pellegrinaggio circolare dove non è assente lo smarrimento, il saccheggio, la meraviglia, il mito e, forse, il ritorno verso di sé”.
Sin dalle prime pagine, ci fa rivivere la grande attenzione nella scelta dei vocaboli che hanno dato vita alla sua opera. Non a caso, infatti, afferma: “scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera”. Per lui, in Romagna dal 1987, sicuramente ha stimolato curiosità semantica capire perché in questa regione italiana “fra gli anziani la formula di saluto più affettuosa sia che ti venga un accidente”. Forse, però, tutto il mondo è paese, se anche da noi, in Italia, troviamo ancora persone che nel leggere il programma di un incontro letterario esclamano: “Ze una roba di cultura!”; che equivale ad affermare: non fa per noi, lasciamola agli altri. Ma chi sono questi altri? Sono tanti Tahar Lamri desiderosi di farsi conoscere per conoscere, per abbattere barriere linguistiche e culturali. I primi ostacoli da superare in un mondo sempre più globalizzato.
Lamri lamenta di non aver studiato i Promessi sposi o le poesie del Leopardi. I nostri ragazzi con leggerezza esclamerebbero: ‘beato lui, sai la noia’. Sì, ma adesso, che su di loro incombe il patema dell’interrogazione. Ma dopo, quando saranno adulti, faranno la stesa considerazione?
E se a palesare questa lacuna scolastica è uno straniero che usa lo strumento del libro per costruire un ponte con la nostra terra, forse – di nuovo il termine ‘forse’ – è il caso di riflettere. Soffermarsi un po’ sull’importanza delle parole e di come queste, a seconda del Paese, possano essere usate per manifestare l’interiorità di chi le pronuncia. Allora, dopo questo piccolo esercizio mentale, resteremo stupiti, ed è vero, nell’apprendere che nella lingua araba esistono ben 99 modi per indicare ‘Dio’, 50 per ‘leone’, 70 per ‘spada’, 60 per ‘amore’; e seguire il sentimento che nascerà, dentro le pagine del libro, da un rapporto epistolare tra i due protagonisti: Elena e Tayeb. Lei italiana e lui arabo.
Per Tahar, nato in Algeria e laureato in legge all’università di Benghazi (in Libia), scrivere in italiano è come avere l’illusione di avervi messo le radici.
“Radici di mangrovia” però, come le definisce nella prefazione “in superficie, sempre sulla linea di confine, che separa l’acqua dolce della memoria, da quella salata del vivere quotidiano”.
Un racconto dentro tanti racconti: una serie di microstorie, che ci parlano dei diversi aspetti dell’amore, intervallati e uniti da mail scambiate tra una donna e un uomo, che potrebbero essere considerati come due popoli, due nazioni che si incontrano nelle loro diversità.