Aurigi: "Non fu colpa del maltempo o della canicola, ma di gente con nome e cognome le cui responsabilità nessuno ricorda più"
di Mauro Aurigi (consigliere comunale del M5S)
SIENA. La “Lega Nord Salvini” piagnucola su Siena che perde pezzi (la scuola di chirurgia), ma non capisce o si è scordata che è anche colpa sua. Quella perdita infatti è solo una piccola fase di quel processo perverso (il bello deve ancora venire) che porterà alla definitiva provincializzazione di questa che era stata sempre una piccola capitale. Un processo al cui sviluppo proprio la Lega stessa dette una mano potente quando negli anni ’90 dedicava paginate intere della Padania contro i Senesi che resistevano alla privatizzazione del Monte dei Paschi, allora enorme strumento di potere morale e materiale in mano alla Città. Quella privatizzazione porterà ambedue, Banca e Città, alla rovina. Era la sua Banca che soprattutto dava potere a Siena. Ora dobbiamo aspettarci solo il peggio. Quindi quelle della Lega sono solo ciniche lacrime di coccodrillo.
Ma quel processo perverso viene da più lontano ed è bene ricordarlo sennò succede che gli oppressori riescano a farsi passare per vittime. Vedi per esempio Marco Spinelli (Pd), consigliere regionale uscente e di nuovo in corsa, che all’epoca, da sindaco di Colle, fu un autorevole e determinato sostenitore della privatizzazione, sfottendo anche chi non era d’accordo. Lui, che di banche (e anche di molto altro, visto che non ha mai lavorato) non capiva una cippa, fu subito premiato con un posto nel consiglio di amministrazione (cda) del Monte. Oggi senza un minimo di rimorso scrive al Presidente Rossi con ripugnante cinismo “…occupiamoci insieme del Monte…”. Non glielo dice o glielo telefona, no, glielo scrive e poi, modestamente, lo fa sapere anche ai media. Cinismo, appunto, perché lo sa che nella Banca non c’è rimasto neanche il fondo del barile da grattare.
ECCO LA GENESI DELLA DEVASTAZIONE
E’ bastata una sola generazione dopo quella dell’antifascismo, della Resistenza o delle lotte operaie e contadine, perché dagli anni ’80 in poi i “compagni”, abbandonati gli ideali (e anche le idee) , si sentissero e si sentano oggi più che mai animati soprattutto da un’insana passione: non odiano più i capitalisti, ma li invidiano o, meglio, invidiano i loro cda. Purtroppo i risultati elettorali non hanno mai concesso loro di potersi sostituire al padronato nei cda delle imprese senza versare una lira nel loro capitale. Così si sono visti costretti a soddisfare la propria avidità nei cda delle imprese pubbliche, anche lì ovviamente senza sborsare una lira, pretendendo anzi e con successo che i soldi ce li mettessero (meglio sarebbe dire “rimettessero” ) i cittadini, ossia tutti noi.
Da allora ad oggi le S.p.A. pubbliche in cui sono interessati Comuni, Province e Regioni sono prolificate fino a raggiungere il numero di circa 20.000 (ad occhio e croce: 20mila presidenti, 200mila consiglieri di amministrazione e forse 40mila sindaci revisori), in massima parte controllate dalla sedicente sinistra, che complessivamente hanno prodotto un buco colossale di 80mld di euro (Rai3, Reporter del 30.9.2013).
Così nel 1995 trasformarono anche il Monte dei Paschi, da banca pubblica che era, in SpA (con tanto di appetitoso cda, dunque). Il sindaco Piccini, votatosi alla causa della privatizzazione dopo averla avversata per mesi, si dedicò subito alle nomine degli amministratori, nel frattempo quadruplicati o quintuplicati rispetto a prima della privatizzazione anche perché, colpo di fortuna, la privatizzazione, che doveva semplificare le cose, aveva raddoppiato i cda: ora c’erano anche le calde poltrone della Fondazione da riempire di deretani. La trovata più brillante del Piccini fu quella di piazzare nel 2001 il suo pupillo politico, Mussari, proprio nel cda della Fondazione affinché gli tenesse in caldo la poltrona di presidente per la quale si era “prenotato” in attesa della vicina scadenza della carica di sindaco. Ma Mussari, sostenuto da D’Alema, lo sgambettò e si collocò lui alla presidenza della Fondazione, da cui controllava facilmente la Banca e quindi l’intera Città (e anche oltre: era ormai uno degli uomini più potenti d’Italia). Cinque anni dopo, nel 2006, Mussari si autonomina presidente del Monte.
QUANTO CI SONO COSTATI PICCINI, MUSSARI E D’ALEMA (E ANCHE FORZA ITALIA E LEGA NORD)
Difficile stabilire quanto valesse il Monte all’atto della sua privatizzazione nel 1995. Il Monte aveva un patrimonio colossale (era la banca più solida d’Europa,) accumulato in mezzo millennio e portato a bilancio a valori molto modesti, spesso irrisori. Quanto varranno realmente, per esempio, i 4 palazzi della Direzione generale (rispettivamente del Duecento, del Trecento, del Quattrocento e uno del Cinquecento)? Invece dei 5 o 6mila mld di lire denunciati in bilancio come capitale netto, fonti ufficiose interne alla banca ipotizzavano una consistenza reale tra i 20.000 e i 40.000 mld di lire (10-20mld di euro). Quando il Monte nel 1999, ossia prima della “cura Mussari”, fu quotato in borsa, i 4mld di azioni schizzarono subito a oltre 5 euro l’una, il che certifica la veridicità di un valore della Banca all’atto della privatizzazione intorno ai 20mld di euro.
Per cui si può calcolare:
- 20mld – valore iniziale del Monte SpA venti anni fa
- 13mld – aumenti di capitale nel frattempo varati per rimediare alle perdite spaventose
- 4mld – i Monti Bond: il prestito dello Stato ormai da considerarsi capitale
- 5mld – per l’inflazione di questi ultimi 20 anni: calcolo composto di un cautissimo 2,5% all’anno, mentre sappiamo tutti che immediatamente dopo il 2002, anno dell’adozione dell’euro, il conto al ristorane passò da 20mila lire a 20 euro e il costo di un appartamento da 300 milioni a 300mila euro (inflazione quindi al 100% in brevissimo tempo)
- 10mld – per 20 anni di mancati utili: il Monte prima della privatizzazione faceva costantemente utili (mediamente 500 milioni di euro annui ai valori di oggi) mentre ha immediatamente cessato di farli o è andato in perdita appena privatizzato (le perdite si coprivano con vendite dei cospicui cespiti attivi: le sostanziose plusvalenze producevano utili di bilancio fittizi, insomma si smontava la banca per far finta di guadagnare).
PIU’ DI 50MLD VOLATILIZZATI IN MENO DI 10 ANNI
Il totale fa almeno 52mld: quindi, se la Banca fosse stata amministrata saggiamente come quando era pubblica, oggi varrebbe almeno 50mld. Non è una cifra campata in aria: se le azioni avessero mantenuto il meritatissimo valore di oltre 5 euro che ebbero quando furono quotate in borsa nel 1999, ossia quando ancora il Monte aveva la buona solidità di quando era pubblica, il suo valore sarebbe oggi addirittura 60mld (12mld di azioni per 5 euro). Siccome il capitale residuo del Monte oscilla oggi tra i 2 e i 3mld, si può ben dire che la privatizzazione del Monte, grazie alla genialità di Piccini e del suo pupillo e ai buoni uffici di D’Alema che quando c’è da dare una mano non si tira mai indietro (e anche grazie a Forza Italia e Lega nord, incavolatissime per le lentezze con cui la privatizzazione procedeva), la privatizzazione si diceva, è costata al Paese e soprattutto a Siena più di 50mld (almeno), volatilizzati in una decina di anni: un autentico primato da Guiness. Se la banca fosse rimasta pubblica sarebbe arrivata alla crisi attuale come ci era arrivata in tutte le grandi crisi internazionali che si sono succedute dall’unità d’Italia in poi. Ossia piena di liquidità mentre tutte le banche private fallivano. Paradossalmente è questo il motivo non secondario del suo duraturo successo del passato. Invece, da buona banca privata, è arrivata alla crisi attuale piena di debiti. Assai più delle sue consorelle, anch’esse tecnicamente fallite e rimaste in piedi solo per il provvido intervento della BCE di Draghi.
Ed ora fate il calcolo di quanto il Paese ha perso tra il Monte e le aziende pubbliche di cui si è detto sopra. Vedrete che si tratta di 130 miliardi. Domanda: come può un Paese (e una Città) mantenere ancora una classe dirigente che si è resa responsabile di tutto ciò?
Ai posteri l’ardua sentenza.