Cosa possiamo imparare dalle epidemie del passato

Mario Ascheri rispolvera il suo "Rimedi contro le epidemie"

SIENA. I tempi calamitosi che stiamo vivendo hanno sollecitato una infinità di pubblicazioni di tutti i generi. Si va dal romanzesco allo scientifico allo storico. Curiosità locali di questa o qualla epidemia, specie del 1348 (la prima devastante) e del 1630 (Manzoni), fino alla ‘spagnola’ di primo Novecento ci danno ragguagli e ci fanno capire quanto siamo tati fortunati… fino al Corona Virus. Già nell’Ottocento la prima storiografia scientifica si misurò sul tema, raccogliendo le testimonianze più diverse in quella specie di enciclopedia delle epidemie che si deve ad un illustre professore dell’Università di Palermo, Alfonso Corradi (primo volume Bologna 1865).

La vita cambierà profondamente, anche per gli sconvolgimenti economici (e politici?) che provocherà. Rivedere i nostri predecessori in quelle circostante può essere utile. Per capire cosa pensavano ma anche per abituarci (non sarà l’ultimo virus il Covid…) e per darci speranza: ci s’è fatta in passato senza gli ausili sanitari di cui possiamo oggi giovarci, perché non ce la dovremmo fare ora?

La riflessione filosofico-teologica e medica è già antichissima sul tema. Ma non ci fu solo quella. Se c’è una ricchezza di cui l’Europa (e l’Italia in paricolare) deve andare fiera è la approfondita riflesisone sugli aspetti collettivi delle epidemie e quindi i problemi giuridici che esse ponevano. Dal medioevo delle grandi università, fondamento allora di un’Europa culturale di élite ben più stretta di oggi, il problema di che cosa si potesse fare sul piano del diritto divenne urgente, specie dopo la Grande Peste per definizione, la Morte Nera del 1348.

Naturalmente nelle università non c’era un insegnamento ad hoc tra i giuristi, per cui loro cominciarono ad inserire proprie riflessioni su che cosa dovessero fare i poteri pubblici e che cosa i privati. Generazione dopo generazione si formò un corpus di ‘diritto della peste’ costruito dai professori universitari, e perciò europeo allora, si pose accanto per influire sui rimedi che i singoli principi e città prendevano di solito copiandosi l’un altro, quando si pensava fossero buoni.

Quanto ai temi si partiva dalle misure di prevenzione generica (salubrità del territorio, acque pubbliche, condotte, scarichi, inumazioni, il peccato, norme per l’economia) e si arrivava alle misure sopravvenute con prevenzione specifica: norme eccezionali, controllo accessi, divieti di esportazione per penuria, stato d’emergenza in tempo di epidemia, assistenza agli infermi, medici condotti e privati, inumazioni straordinarie, erogazioni annonarie, ospedali.

Per gli individui il problema delle ovvie cautele (fuga in luoghi sani, meglio campagne) si completava con la ‘relaxatio’ delle regole: fino a che punto si deroga per i fuggitivi, gli esercenti determinate attività economiche, gli ecclesiastici, i rapporti tra coniugi, testamenti, testimonianze, donazioni, assunzione del rischio, locazione, enfiteusi,soccida, trasporti.
I processi avevano anch’essi le loro ripercussioni: udienze, prescrizione, competenza dei giudici, contumacia, appelli, volontaria giurisdizione…

Questa pubblicazione è nata in tempi non calamitosi, nel 1997, ed è circolata solo tra specialisti esaurendosi presto, per cui non posso che ringraziare l’editore Aracne e i colleghi curatori della collana nella quale è stata inserita per aver pensato a questa ristampa a tamburo battente.

La pubblicazione era nata come una raccolta di materiali di studio con il proposito di far conoscere quali espedienti, filtrati dalle conoscenze mediche, i giuristi avevano elaborato da proporre ai governi europei per far fronte alle terribili mortalità epidemiche che periodicamente si abbattevano con drammatica cadenza dopo quella del 1347–49. Diciamo governi “europei” perché gli autori delle opere qui prese in considerazione sono italiani, ma il diritto della necessità pubblica cui essi davano un apporto con le loro pagine era rivolto al pubblico indifferenziato a livello europeo cui si rivolgevano gli insegnamenti universitari. Qui le fonti legali utilizzate sono essenzialmente quelle del diritto romano e del diritto canonico che si insegnavano allora con gli stessi metodi in tutto il Continente, formando il cosiddetto “diritto comune”. E si scrivevano in latino proprio per non avere ostacoli nella comprensione internazionale.

Devo ancora aggiungere, se mi si consente una nota personale, che il tema drammatico della disciplina normativa della “necessità” è sempre stato presente nel mio lavoro. Lì si lavora “borderline”, con la legalità ufficiale sempre in pericolo, esposta a deroghe ed abusi. Ne ho parlato spesso nei social in questi giorni, a proposito di casi di violazione delle norme attuali (fuga da Bergamo per l’ospedale di Siena, ad esempio) ma anche per entrare nel merito del problema molto sfaccettato dei ‘migranti’. E della necessità ancora più grave cui sono sottoposti i bisognosi così indigenti d non potersi neppure permettere di arrivare alle coste del Mediteraneo.

E’ tutto un complesso di contraddizioni che il mondo occidentale si porta dietro da tempo e che la crisi drammatica dell’economia cui andiamo incontro renderà anche più acute.

Non per niente ho parlato di ‘pene di morte’, perché non ci si può limitare alla pena di morte giudiziaria, che per fortuna fa parte di un altro momento della nostra cultura.

Mario Ascheri